Non può esistere una critica

NON PUO’ ESISTERE UNA CRITICA DEL CAPITALISMO SENZA UNA CRITICA DEL PATRIARCATO PERCHÈ LA SINISTRA NON E’ L’ALTERNATIVA[1]

 

(dal libro: The Failure of Modern Civilization and the Struggle for a «Deep» Alternative: On «Critical Theory of Patriarchy» as a New Paradigm di Claudia von Werlhof, docente dei  Women´s Studies all’Institute for Political Science, Department of Political Science and Sociology, University of Innsbruck, Austria)

Nota preliminare 2010

Se prendiamo in considerazione quello che oggi sta lentamente ma inesorabilmente venendo alla luce – una nuova “alchimia militare” che usa il pianeta stesso come arma di distruzione di massa – non è più possibile posticipare, o addirittura rifiutare, l’urgente necessità di una critica radicale delle tecnologie moderne. La sinistra sembra impreparata a tale critica nonostante che nei paesi di lingua tedesca ci sia stato, durante gli anni ’70 e ’80 e per parte dei ’90, un ampio dibattito generale sulla tecnologia delle macchine. Da allora l’avanzata del neoliberismo ha più o meno minato o represso questo tipo di discussioni pubbliche, cosa che è andata di pari passo con la cancellazione del femminismo radicale e del suo approccio disciplinare trasversale, che critica il patriarcato capitalista. Per contro, è cresciuta la consapevolezza pubblica di una sinistra “addomesticata” e di un approccio di “genere” pro-neoliberismo – ma per quanto ancora?

Il saggio che segue descrive lo sviluppo teoretico della teoria critica del patriarcato, che è nata dalla cosiddetta “Scuola di Bielefeld”: partendo dal concetto di “patriarcato capitalista” è stata formulata una critica più sistematica del progresso “tecnologico”, definendolo patriarcale e distruttivo.

La ricerca femminista e la sinistra

Fin dalla seconda metà degli anni ‘70 è emersa all’interno del nuovo movimento delle donne una specifica lettura politica che non solo interroga gli argomenti fondanti della destra, ma anche quelli della sinistra, nonché i fondamenti della scienza moderna. In Germania, l’impegno di una nuova e profonda critica del capitalismo è stato portato avanti da Maria Mies, Veronika Bennholdt-Thomsen e da me, Claudia von Werholf – critica che è conosciuta sotto il nome di Scuola di Bielefeld, e che è entrata più tardi a far parte dell’ecofemminismo.[2] Tuttavia, non ci è voluto molto prima che il movimento delle donne nel suo insieme fosse travolto dallo stesso destino toccato alla maggior parte dei movimenti sociali e abbia finito per dividersi: nel caso specifico, in donne dell’ala sinistra da un lato e “femministe” dall’altro.[3] Durante gli anni ‘80, la ricerca femminista iniziò a essere rimpiazzata quasi completamente dai “gender’s studies” d’importazione statunitense, con il risultato di una de-politicizzazione del movimento femminista e dei “women’s studies”. Non che le donne fossero adesso meno presenti nella scienza e nella politica, semmai è vero il contrario, ma scomparvero del tutto l’acume e il radicalismo dei women’s studies.[4]

Quella che chiamiamo “globalizzazione” ha causato un così rapido deterioramento delle condizioni di vita della maggior parte delle persone di questo pianeta, che appare inspiegabile come sia la scienza che la politica – inclusa la maggior parte delle donne coinvolte in entrambe – sembrino ignorare ostinatamente la questione.[5] Visto che le domande giuste erano già state poste da lungo tempo ed era stata raggiunta una consapevolezza tale da permettere non solo di fare analisi appropriate, ma anche di aprire la discussione sulle vere alternative, il fatto ci dovrebbe sembrare ancora più strano Si deve quindi dedurre che è stato proprio questo risultato a causare quei dirottamenti ben orchestrati, sia dalla destra che dalla sinistra, atti a demolire la ricerca del movimento delle donne e delle femministe. Un episodio di storia politica troppo complesso per essere descritto ora; il saggio si propone piuttosto di analizzare la tensione tra il femminismo e la sinistra. Come diverrà via via sempre più chiaro, il fatto che la sinistra, nonostante la sua retorica, non cerchi – e non sia in grado di farlo – un’alternativa al sistema in cui viviamo è proprio l’oggetto di discussione della scuola di Bielefed.

Cosa significa realmente capitalismo?

Tra le molte e prime istanze sulle quali il nuovo movimento delle donne e gli studi ad esso correlati si sono focalizzati, c’erano la violenza contro le donne e il lavoro domestico non retribuito. La “questione femminile” fu approcciata come parte di un più vasto contesto sociale ed ecologico. L’intento era quello di spiegare come mai i due fenomeni potevano esistere nel bel mezzo di una pace e una democrazia presunte, un regime capitalista di lavoro retribuito e l’altrettanto presunto innalzamento degli standard di vita nelle nazioni industrializzate – tutte cose che passavano per “civiltà occidentale”. Tuttavia, bastava dare un’occhiata oltre i confini del cosiddetto “primo mondo” per allargare ulteriormente i termini della questione: Come poteva succedere che il cosiddetto “terzo mondo”, nonostante fosse stato incorporato nel cammino verso il “progresso” e lo “sviluppo”, rimanesse caratterizzato dal sottosviluppo e dalla mancanza di lavoro retribuito – per non menzionare le dittature, la guerra e la violenza? E come mai il “socialismo” del cosiddetto “secondo mondo”, vissuto come anti-capitalista (e in apparenza impegnato in una “competizione di sistemi “ con l’occidente), non permetteva nemmeno delle condizioni politiche pseudo-democratiche e non raggiungeva mai l’“obiettivo che si era dato”?

Cercando di riflettere su tutti questi temi, le ricerche socio-economiche di Mies, Bennholdt-Thomsen e le mie si sono concentrate per lo più sulla cosiddetta “terza parte” del mondo e hanno avuto come risultato una nuova e più ampia definizione di capitalismo[6]; quello che segue è un riassunto sommario di questa posizione teoretica.

I “rapporti di produzione” capitalisti

 

  • Il principale contrasto nel capitalismo non è quello tra il lavoro retribuito e il capitale, ma quello tra tutti i lavori –la vita – e il capitale.
  • L’economia capitalista non è capita da chi conosce il lavoro retribuito, ma da chi conosce quello non pagato, specialmente il moderno lavoro domestico/ “i lavori di casa”. Il capitalismo persegue una fede, che vuole che il lavoro – al pari delle risorse naturali e delle attività domestiche – debba essere più gratuito e “proficuo” possibile.
  • Non è la proletarizzazione, ma la “domesticazione” del lavoro (che sta includendo sempre di più il lavoro degli uomini bianchi) che caratterizza lo sviluppo capitalista.
  • Il fatto che il normale lavoro salariato stia scomparendo non significa la scomparsa del capitalismo, anzi, al contrario, il suo consolidamento e la sua espansione.
  • Ancor più del sistema di lavoro retribuito, sono le forme di lavoro non pagato (o come minimo, quelle forme di lavoro retribuito non regolamentato) che definiscono il capitalismo: lavoro domestico, nuove forme di schiavitù, lavoro forzato, servitù, “marginalità” e altre forme ibride di rapporti di produzione precari (e non stiamo parlando solo di produzione di beni, ma anche di produzione di sussistenza).[7] Nessuno di questi rapporti di produzione deve essere equivocato come pre-capitalista – perché appartengono tutti al capitalismo! Il capitalismo non è finalizzato al lavoro retribuito, ma alla produzione di beni nella forma più economica possibile.
  • Il capitalismo ha creato la moderna “divisione sessuale del lavoro”, che è alla base di ciò che viene riprodotto nella divisione internazionale del lavoro del sistema capitalista mondiale. La forza lavoro contadina e delle colonie assume il ruolo riservato alle donne. Nessun valore reale è attribuito al loro lavoro e perciò non deve neanche essere retribuito.

L’accumulazione del capitale

  • Lo scopo del capitalismo non è la trasformazione del lavoro in lavoro retribuito, ma la trasformazione del lavoro, della vita e del pianeta in capitale, ovvero in: denaro, beni di consumo, macchinari e “controllo del lavoro” (Marx).[8] L’accumulazione del capitale non avviene solo tramite lo sfruttamento del lavoro salariato, ma con lo sfruttamento di ogni tipo di lavoro, insieme allo sfruttamento della stessa natura e della vita. Non è la “socializzazione” del lavoro regolata dalla “libera contrattazione” che permette la svalutazione del lavoro e della vita e, di conseguenza, l’aumento del capitale, ma è la loro “naturalizzazione”, cioè la loro trasformazione in “risorse naturali” da sfruttare/estrarre (“riconversione in risorse naturali”).[9]
  • La cosiddetta accumulazione “originaria” o “primaria” (la separazione dei produttori dai mezzi di riproduzione) non appartiene solo alle origini del capitalismo. Viene costantemente riprodotta dal capitalismo e quindi non è pre o non-capitalistica, ma parte integrante del capitalismo.[10]
  • La “continua” accumulazione originaria è un furto. È accumulazione tramite esproprio. Chi viene espropriato in maniera massiccia sono le donne, che sono – daccapo, a ogni nuova generazione e in modo organizzato – separate dal controllo dei loro corpi come “mezzi di produzione”, dai frutti del loro lavoro, dai loro bambini e dai loro poteri vitali.
  • Ogni aspetto dell’accumulazione primaria è caratterizzato dalla violenza sistemica. Il “segreto” (Marx) dell’accumulazione originaria spiega la costante violenza contro le donne, la natura e i colonizzati. Ci troviamo di fronte è una guerra permanente.[11]

Il “modo di produzione” capitalista

  • Il capitalismo come modo di produzione si basa su una serie di differenti rapporti di produzione, spesso fraintesi come distinti “modi di produzione intercorrelati”.[12] Il capitalismo è un modo globale di appropriazione ed espropriazione, e un modo altrettanto violento di trasformazione e distruzione. La guerra non è uno stato eccezionale; è sempre stata un aspetto necessario e permanente sia dell’economia che della politica capitalista.
  • Nel capitalismo, la guerra non assume solo l’aspetto di guerra di conquista, coloniale o di aggressione. Lo stesso modo di produzione capitalista significa sempre sia guerra contro l’umanità, sia guerra tra umanità e natura.
  • Il modo di produzione capitalista ha – nonostante la percezione comune – un carattere coloniale costante. Le sue caratteristiche tipiche sono i metodi di colonizzazione interni ed esterni. È questo che definisce con precisione la sua “modernità”, il suo “progresso” e la sua “civiltà”.[13]
  • Al modo di produzione capitalista sono intrinsecamente connesse non solo le sue tendenze imperialistiche, ma anche quelle imperiali, che si basano sul sistema mondiale moderno e che richiedono una dominazione totalitaria del mondo. Le condizioni politiche di democrazia sono solo un’espressione temporanea del modo di produzione capitalista e non sono necessariamente legate a esso.[14]
  • Il capitalismo come “modo di produzione” – in verità, di distruzione – si è sempre basato sul mondo nel suo insieme. Ecco perché – capovolgendo un concetto comune – è il mondo intero a dover essere considerato l’“ unità di analisi” (Wallerstein) – e non il “primo”, il “secondo” o il “terzo” mondo; o un singolo stato nazionale[15]. La nazione, poi, è solo una conseguenza e una perpetuazione della divisione internazionale del lavoro/ordine mondiale. È quello che chiamiamo “l’illusione dello stato nazionale”.
  • Spinte dallo shock causato dal disastro nucleare di Chernobyl del 1986 – che ha segnato l’inizio della caduta dell’Unione Sovietica – alcune di noi si sono focalizzate sempre di più sulla critica del cosiddetto “sviluppo delle forze di produzione”, in altri termini, sulla critica della tecnologia nel capitalismo.[16] Parallelamente, è successo che si intensificasse la critica del patriarcato. È stato subito chiaro che il secondo non era altro che la precondizione del primo.

Lo sviluppo delle forze produttive nel capitalismo

  • Lo sviluppo delle forze produttive del capitalismo è stato sempre legato al bisogno della guerra, quindi alla necessità di forze distruttive intrinseche.
  • Il lavoro che corrisponde a queste tecnologie deve essere “bellicoso” e “militaresco”. Deve iscriversi sia nelle relazioni di obbedienza sia in quelle aggressive con il suo “nemico”, l’oggetto del lavoro. Da simili tecnologie non ci si può aspettare né un’“umanizzazione” né una “democratizzazione”.
  • La fabbrica è modellata sull’accampamento militare. Le sue tecnologie non sono quelle dell’artigiano, ma della macchina pensata per la guerra. Non c’è niente di “neutrale” in queste tecnologie.
  • A differenza dell’artigianato, la tecnologia della macchina si basa sulla nozione del dividi e impera. Di conseguenza, segue la logica della tradizione “alchemica”, che, inosservata dai più, ha sempre implicato il principio della macchina.[17] Oggi, la tecnologia della macchina è la moderna e totale implementazione dell’alchimia. Eppure, l’alchimia ha fallito enormemente con le sue ambizioni di separare la produttività e la creazione dalla natura e dalle donne, ambizioni che facevano parte della sua pretesa di dominare il mondo.
  • Per prima cosa, la macchina è un “sistema chiuso”. Corrisponde a un’istituzione totale (itaria). Non ha più nulla a che vedere, come tecnica generica, con l’“artigianato”.[18] Vero imperativo oggettivo, anonimo, impersonale, la macchina è “un condensato di dominio” e un “concentrato di guerra”.
  • La produzione della macchina: i beni sono (come in generale il capitale/denaro) “vita passata rappresa” (Marx), da qui “corpo-cadavere” (Bloch) – non solo nel senso di essere morto, ma nel senso di essere stato ucciso.[19] I beni servono l’accumulazione del capitale e non la soddisfazione dei bisogni umani, che perciò ha poco a che fare con il consumo dei beni.
  • Oggi le “nuove” tecnologie sono particolarmente dannose per le donne e le madri, la creazione della vita, e per la vita stessa. Attualmente la “macchinizzazione” – la trasformazione della vita in macchine – penetra con violenza i corpi di donne, uomini e natura.
  • La moderna nozione scientifica della natura fornisce la base per lo sviluppo delle forze produttive. La riduce a una cosa morta, a materia senza vita e spirito. Ne fa una risorsa da sfruttare senza fine.[20] Trattata in questo modo, la natura finisce per essere quello che si è sempre pensato che fosse all’interno della logica dell’illimitata “produttività” umana che mira a dominarla:letteralmente, una “seconda natura” invece che una “prima (selvaggia) natura” che si auto-crea. Una profezia auto-appagante che nega naturalmente la violenza e la distruzione che il processo significa per la natura in quanto entità vivente – e perciò appunto non sfruttabile senza fine, ma distruttibile e finita.
  • Vista come un sistema, la natura assomiglia a un meccanismo, una macchina. Alla fine anche la macchina stessa viene considerata natura e riesce a fingere di aver preso il posto della prima natura.[21]
  • Le donne sono state considerate parte di questa “natura macchina” fin dall’Illuminismo. Solo il lavoro maschile viene reputato “produttivo”, soprattutto se applicato alle macchine (e le donne, parte della macchina). Al lavoro femminile – per esempio, la “produzione della vita umana” – viene negato ogni valore. La stessa cosa succede a ogni attività non legata alla macchina, e alla produttività della natura stessa.[22]
  • Non sorprende che le ragioni dell’attuale disastro ecologico, che è anche un disastro umano, non siano pienamente comprese. Hanno la loro radice nel fatto che le vere forze produttive, quelle della vita (“prima natura”) sono state completamente distrutte nella trasformazione messa in atto dalla “produzione” capitalista. Eppure, nessuno lo ammette e la natura stessa viene resa responsabile non solo della questione ecologica, ma anche delle ulteriori misure oppressive su di lei – come se fosse la natura che minaccia l’uomo e non l’uomo che sta distruggendo la natura.
  • Una vera produttività maschile può manifestarsi solo se non ci sono limiti alla macchina. Attualmente l’uomo sta comunque lavorando al rafforzamento della macchina attraverso una sorta di “vitalizzazione” alchemica: farle prendere la forma di un robot (intelligenza artificiale) o di una bio-macchina da riproduzione (“tecnologie riproduttive”, cyborg, OGM, nanotecnologia).[23] La vita è “programmata” all’interno della macchina, o – vista dall’altro lato – la macchina viene “imposta sulla” vita. L’intento è quello di costringere la vita a sostentare la macchina e a rendere l’una inseparabile dall’altra, in modo che alla fine la macchina possa sembrare l’unica “produttiva” e “creatrice”. Così la macchina diventa un “sistema aperto”, non più “sotto” ma “fuori” controllo. Eppure sembra che la si possa riproporre come un presunto sostituto, di gran lunga superiore, delle madri e della natura.

La ricerca femminista: globalizzazione e piena capitalizzazione

Questa analisi del capitalismo sostituisce il riduzionismo intrinseco sia alle scienze naturali che all’economia politica (e alla critica che producono). Per questo riesce a vedere ben più lontano di una sinistra che non vuole nemmeno vedere le vere contraddizioni del capitalismo reale. La nostra analisi, invece, analizza il capitalismo “dalla testa ai piedi”. Visto da “sotto” e da “fuori”, il capitalismo appare totalmente differente (a volte perfino antitetico) da come è stato sempre presentato e criticato – anche dalla sinistra. Da questa prospettiva, i concetti che hanno svolto la funzione di linee-guida per un futuro migliore, perdono di significato: proletariato, sindacato, politica della sinistra, progresso tecnologico, lo “sviluppo” delle nazioni industrializzate, il ruolo leader dell’occidente, la superiorità dell’uomo sulla donna. Se dovessimo seguire questi concetti, ci troveremmo inevitabilmente su un binario morto.

Dato che il capitalismo è di per se stesso un’impresa globale, comprende il “secondo” e il “terzo mondo” piuttosto che incarnare il ruolo di un’alternativa al sud, presupposto “feudale”, o all’est “rosso”. Il capitalismo, o “primo mondo”, sembra essere emerso come unico vincitore negli ultimi 30 anni di “globalizzazione”. Il “socialismo”, inteso come mondo “post-capitalista”, è quasi del tutto svanito. Eppure, dal 1989, il vittorioso occidente/nord si trova ad affrontare una crisi (“illusione del welfare state”) in cui, saccheggiando e distruggendo il mondo, ha finito anch’esso per cadere. La cosiddetta “battaglia della produzione” ha dimostrato di essere più battaglia che produzione. È diventato impossibile per chiunque apra gli occhi, non vedere il carattere parassitario e contro-producente del sistema capitalista mondiale.

Di conseguenza, il collasso del sistema statale del socialismo reale non significa la fine di qualsiasi “competizione fra sistemi”, ma sottolinea solo la caduta di una parte del sistema mondiale capitalista, e altre seguiranno: il sud è già imprigionato in una spirale al ribasso e al nord, grazie alla “politica delle riforme” e alla crescente “precarietà” della condizione lavorativa, molte colonne del sistema iniziano a traballare: le istituzioni borghesi, l’organizzazione del lavoro retribuito, la fedeltà delle masse.[24] Piuttosto che liberare la gente dalla sofferenza, il capitalismo è ciò che in primo luogo la fa soffrire. Lo “sviluppo” di qualcuno significa sempre il sottosviluppo di altri. Altro che creare prosperità per tutti! Il capitalismo sfrutta e distrugge le ricchezze della terra (“privatizzazione”). “Progresso” non vuol dire nient’altro che l’inasprirsi della violenza dei metodi di appropriazione, espropriazione e distruzione. La “crescita” si traduce in guerra ad ogni livello.[25]

Le conseguenze che si traggono da una tale analisi del capitalismo devono essere irremovibili. La posta in gioco è come fermare il sistema capitalista mondiale e la sua corsa per raggiungere l’obiettivo delle sue logiche di sistema di guerra planetario. Implica lasciarsi alle spalle la produzione di beni e ridare vita a quell’economia di sussistenza che è stata oppressa troppo a lungo ed è stata in gran parte distrutta. Questo vale sia per il nord che per il sud. Come teorizzato da Bennholdt-Thomsen, Mies, Shiva, da me e altri nei nostri dibattiti internazionali, la prospettiva di sussistenza formula la possibilità di una futura liberazione della sussistenza, della vita, dell’esistenza, del lavoro, delle relazioni fra i generi, della politica, della natura e della cultura. Significa liberarsi dalla guerra permanente contro l’umanità e la natura, messa in atto dalla produzione di beni e dalla continua accumulazione originaria.[26] La prospettiva di sussistenza è praticata e teorizzata da molto tempo nel sud come via alternativa, e sta crescendo anche al nord.[27]

Deve essere perseguita la politica di “un’esistenza autonoma senza dominio”, che significa ri-creare delle relazioni sociali egualitarie.[28] Le nostre proposte sono sempre state provocatorie per la sinistra. Il concetto di “sussistenza” è stato visto come nient’altro che un ritorno al “tradizionalismo” e al “sottosviluppo”, quindi considerato senza valore per il dibattito – nonostante sia evidente che è proprio la moderna produzione dei beni che causa il vero sottosviluppo. La prospettiva ecofemminista di una relazione diversa con la natura appare “romantica” alla sinistra, perché la natura è stata catalogata come violenta e l’uomo come quello preposto a controllarla e a sottometterla. Eppure, le catastrofi naturali a cui stiamo assistendo altro non sono che l’effetto di questa cosiddetta “sottomissione della natura” – invece di testimoniare la violenza della natura, sono il riflesso della violenza di chi sta cercando di dominarla. Per quanto concerne le relazioni di genere, la sinistra maschile non può averne neppure una pallida idea: quando provano a farsela, si vedono immediatamente sopraffatti dalle donne (invece di sentirsi sommersi dai contributi delle donne!)

La critica alla macchina pare essere un affronto bell’e buono e viene respinto caparbiamente – perché l’Uomo perderebbe la sua identità senza la macchina mondo. Per finire (e dovrebbe suonare abbastanza strano) la nostra visione di relazioni sociali senza dominio pare spaventare la sinistra. La nostra critica è stata catalogata come una critica priva di qualsivoglia teoria – “anarchia”. Che razza di tradimento! Una teoria deve necessariamente sancire e alimentare il dominio per essere considerata “scientifica” o “politica”; o per essere “importante”? Forse che l’Uomo basa la sua identità unicamente sul suo ruolo di dominatore? Sembrerebbe proprio così. Tuttavia, le vere femministe non potranno mai inserirsi in un progetto di stato, perché lo stato è stato inventato per dominare.

L’esperienza della Scuola di Bielefeld non è stata l’unica a rilevare che la sinistra non è interessata a una vera alternativa. E in realtà la sinistra non propone alcuna alternativa. Si riducono tutte a uno schema che prevede la pura ridistribuzione del capitale = potere, denaro e beni. L’unica domanda della sinistra è sempre stata: Come si fa ad arrivare al potere? L’obiettivo non è mai stato rovesciare il sistema (forse solo “riformarlo”) o trovare davvero un’alternativa. Quando mai sono state promosse alternative reali sin dall’inizio? Allora perché la sinistra non vuole un’alternativa?

Cosa significa patriarcato e che cosa ha a che vedere con il capitalismo?

L’analisi del capitalismo della sinistra è limitata: primo, perché la sinistra esiste, pensa e percepisce all’interno della logica capitalista; secondo, perché è profondamente radicata nel patriarcato. Solamente dopo aver visto i limiti del capitalismo possiamo prendere in esame il suo prima e dopo. E una volta fatto questo, troviamo il patriarcato (non- o pre-capitalistico) e il matriarcato. A partire dagli anni ’90, l’analisi teoretica (e non solo polemica) di questi concetti ha interessato sempre di più il nostro lavoro.[29] Le donne hanno parlato a lungo di patriarcato, soprattutto da quando il capitalismo è diventato così platealmente ostile verso di loro e le sfrutta in modo particolarmente accurato.[30] Rimane sempre però poco chiaro cosa significa realmente patriarcato. Per la maggioranza delle donne ha significato solo il potere degli uomini e dei padri – all’interno della famiglia, sul posto di lavoro, nello stato. Si sa che il patriarcato è più vecchio del capitalismo. Ma qualcuno nella sinistra pensava che il patriarcato fosse perlopiù un relitto storico non del tutto razionale, che col tempo, sarebbe stato scalzato dal capitalismo e dal “progresso”. Ma anche qui le cose non sono come sembrano.

Tesi I: il patriarcato è il fondamento della base, la “Tiefenstruktur” o struttura profonda del capitalismo

Se si va a esplorare profondamente la storia che precede il capitalismo, si trova il patriarcato e con esso alcune caratteristiche della realtà legate anche al capitalismo: la guerra come mezzo di saccheggio e di conquista, il sistema di dominio (lo stato), la categorica sottomissione delle donne, la divisione di classe, lo sfruttamento organizzato della natura e dell’umanità, le ideologie della “produttività” e le religioni della “creazione” da parte del maschio, una pratica alchemica intesa a “legittimarle” entrambe e la dipendenza dalla produttività e dalla forza creativa, quelle reali, degli altri – una “civiltà parassita” in tutto e per tutto. Si sa che il patriarcato risale almeno a 5-7 000 anni fa. In questo periodo l’Europa ha conosciuto parecchie ondate di patriarcalizzazione,[31] che sono descritte in varie maniere; invasioni dei “Kurgan”, romanizzazione, cristianizzazione e il feudalesimo che le ha seguite.[32]

Quali sono le differenze tra patriarcato e capitalismo e che cosa invece hanno in comune? Il capitalismo ha vecchie e diffuse radici nel patriarcato: ne rappresenta infatti l’ultima espressione. In questo senso, il capitalismo e il patriarcato si appartengono reciprocamente. Le differenze si riscontrano in ciò che è specifico del capitalismo: la diffusione del lavoro retribuito, l’invenzione del lavoro domestico non pagato (direttamente legata all’istanza precedente), la generalizzazione della produzione delle merci(in vari modi), il ruolo guida del capitale come ricchezza astratta, la creazione di un “ordine mondiale” che sostituisce gli “imperi” che c’erano prima (Wallerstein) e la globalizzazione dell’intera impresa capitalista, spinta fino al punto di un possibile collasso causato dal raggiungimento dei limiti che la terra può sopportare e che la tecnologia può trascendere. [33] Tuttavia questi specifici sviluppi sono in linea con la traiettoria generale del patriarcato.[34]

Tesi II: il capitalismo tende a realizzare l’utopia patriarcale, un mondo senza natura e senza madri (“piena patriarcalizzazione”)

L’aspetto totalmente nuovo del patriarcato della modernità è il tentativo di rendere materialmente reali le ideologie di una “produttività” e una “creazione” divina maschili. La transizione dall’idealismo al materialismo patriarcale – che è nata nell’Europa occidentale – è ciò che distingue davvero il capitalismo da tutte le altre forme di patriarcato e da tutti gli altri modi di produzione. Tuttavia non si deve prendere questa transizione come una rottura nella storia del patriarcato. Al contrario, lo porta alla completa realizzazione, fino in fondo, per provare una volta per tutte (e nella “realtà”) che è stato davvero il capo, il padre, l’Uomo, dio, che ha creato il mondo ed è il vero demiurgo della vita.[35] Il capitalismo è il progetto utopico del patriarcato moderno. Il suo fine è rendere superflua ogni giustificazione ideologica del dominio. Adesso i risultati materiali dello stesso capitalismo devono essere considerati prove a sostegno del fatto che i patriarchi sono dei veri “creatori”. L’obiettivo finale è porre termine alla dipendenza da chi sarà sempre l’unico vero creatore e produttore: la natura, la dea, la madre. L’idea è di sostituirla con qualcosa che si ritiene superiore.

Ciò che perlomeno è implicito in questi sforzi è che non c’è mai stata nessuna vera creazione patriarcale. Infatti, fino alla modernità, la nozione stessa di una creazione patriarcale è stata solo una pretesa astratta. Il moderno progetto capitalista-patriarcale si distingue da quelli che lo hanno preceduto perché non si accontenta più di cercare di appropriarsi o imitare la creazione naturale (tentativo ovviamente vano), ma cerca di sostituirla attivamente con qualcosa di completamente nuovo. Ci troviamo di fronte alla pianificazione di “un’utopia del reale” che contrasta l’ordine della vita. È per questo che definisco il patriarcato un “sistema alchemico” o di “guerra”.[36] La forma capitalista del patriarcato è l’apice dello sviluppo patriarcale, di quell’“evoluzione” che lo stesso patriarcato ha inventato. Tenta di fondare un patriarcato “completo” ed “eterno”, un nuovo paradiso privo di ogni traccia matriarcale e naturale. L’intento è quello di andare oltre il mondo come lo conosciamo per raggiungerne uno presumibilmente superiore – tramite un processo di “parto” metafisico.[37]

Tesi III: il patriarcato non verrà sconfitto dal progresso in quanto è il progresso stesso nella sua forma capitalista

Fin dagli albori, la scienza moderna sta in relazione con la natura “come un esercito sta in un territorio nemico, di cui non conosce nulla”.[38] Il che, applicato alla forma che caratterizza la tecnologia moderna, vuol dire esattamente quanto segue: sotto forma di macchina, la scienza moderna si è focalizzata sull’eliminazione virtuale (“sostituzione”) non solo della vita, della morte e della creazione della vita così come le conosciamo, ma anche dell’umanità, delle donne e delle madri, della terra, piante e animali; e della stessa materia.

Le nuove tecnologie (l’“algeny” di Rifkin) – e cioè l’“alchimia nucleare”, la biochimica, le nanotecnologie, le tecniche di riproduzione e l’ingegneria genetica – rivelano chiaramente l’intenzione nascosta nella conformazione che l’alchimia patriarcale ha preso nella modernità: provare la supposta esistenza di una creazione/produzione del maschio. Ma naturalmente il progetto non viene portato avanti con la collaborazione delle donne e della natura, bensì in opposizione a esse. La stessa macchina ha rappresentato il primo tentativo di sostituire l’umanità e la natura (congegni per uccidere, lavorare, per il sesso e la riproduzione). E adesso le si mette a fianco la “meccanicizzazione” della natura stessa. La macchina costituisce un “sistema aperto” che non sostituisce la natura come potrebbe fare un semplice impianto. Al contrario, la costringe a fare tutto da sola, inducendola a rispondere alle “informazioni” introdotte dai tecnici molecolari tramite la modificazione genetica.[39] Si tratta di una tecnologia volta a farla finita con la “gestalt”, la forma della vita stessa.

Nella fattispecie, il trucco della macchina in quanto “sistema aperto” invece che chiuso, è di usare tecnologie come gli OGM e le nanotecnologie per sostituire l’informazione delle cellule con una nuova informazione, risultato della combinazione genetica forzata o di microchip. Una volta immessi in un corpo vivente, sono programmati per riprodursi autonomamente al suo interno. Ma i cicli naturali vengono messi fuori fase non appena si installa questo nuovo comando programmato dall’esterno.

Finora questi tentativi non sono stati all’altezza delle bramosie di controllo degli uomini. In effetti a coloro che come noi vedono la natura e il corpo da una prospettiva non capitalista/patriarcale, appare ovvio che ogni tentativo di produrre un’entità o una forma di “vita” immortale, migliore, più alta, superiore, perfetta è destinato a fallire. Tutto quello che lo sforzo del capitalismo attuale è riuscito a produrre sono state forze incontrollate di violenza che stanno completamente distruggendo ogni relazione e ciclo naturale – dall’esterno come dall’interno. I recenti piani per una vita “trans” o “post-umana” ci mostrano quanto il sistema sia al contempo grottesco e pericoloso; se gli esseri umani non potranno essere creati artificialmente, allora possono anche essere eliminati![40] Il moderno capitalismo patriarcale ovviamente non conosce restrizioni di tipo morale e ha già fatto un enorme danno alla vita del pianeta.

Tesi IV: fino a quando il patriarcato capitalista rimarrà l’utopia della sinistra, la sinistra non sarà in grado di fornire alcuna alternativa.

L’analisi del patriarcato rende molto più facile capire perché la sinistra fa così fatica a trovare delle alternative al capitalismo. Il capitalismo è il patriarcato capitalista: se svanisce il primo, svanirà anche il secondo per lasciare sopravvivere solo il patriarcato nella sua forma pre-capitalista, quella che ancora non implica il “materialismo utopico”. Tuttavia è alquanto improbabile che la sinistra possa mai abbandonare il progresso tecnologico – cuore del patriarcato capitalista. Quindi la “liberazione” del patriarcato dal capitalismo non è in vista. Naturalmente, è molto poco probabile che possa verificarsi il contrario: il capitalismo non potrà mai essere liberato dal patriarcato perché senza patriarcato non esiste capitalismo. È l’utopia del patriarcato e il tentativo di realizzarla che ha consentito la nascita del capitalismo. Non esiste nessun modo di produzione capitalista al di fuori del patriarcato.

Una vera alternativa al patriarcato capitalista dovrebbe essere una profonda alternativa [alterna-depth].[41] Gli studiosi non si dovrebbero più occupare dei 500 anni del capitalismo – dovrebbero invece prendere in esame i 5000 del patriarcato![42] Dobbiamo liberarci da una religione che ha fra i suoi seguaci perfino gli atei ed è caratterizzata da una fede incrollabile nei sistemi di violenza che hanno delineato il patriarcato fin dalle sue origini. Specialmente al nord, gli uomini della sinistra e dell’accademia hanno da lungo tempo aderito a questa fede e in questi tempi sta crescendo il numero delle donne che fanno altrettanto.[43] Dobbiamo trovare modi completamente diversi di sentire, pensare e agire. Dobbiamo partire dalla punta dell’iceberg per raggiungerne l’enorme, profonda base che lo costituisce. Solo così ci sarebbe la possibilità, per l’umanità a venire, la sinistra e, fra loro, tante femministe, di rovesciarlo per rivelare le verità nascoste della nostra società.

Il problema della sinistra nel trovare un’alternativa è perfino più grave di quanto avessimo sospettato. Non è interessata a un’alternativa al capitalismo esistente perché il capitalismo intende realizzare l’utopia patriarcale e il patriarcato è profondamente inscritto nell’“inconscio collettivo” di sinistra.[44] Ci si dovrebbe rivolgere all’intero, alla profonda alternativa che brilla per tutta la storia del matriarcato (l’“ordine materno”) e anche alle sue permanenze, che continuano a esistere in mezzo al patriarcato.[45] A tutt’oggi, la sinistra non riconosce il risultato delle recenti indagini che attestano che le società matriarcali del mondo – a differenza della modernità capitalista e di tutte le società patriarcali – non hanno mai conosciuto stato, dominio, classi, guerra, conflitti di genere o catastrofi ecologiche. Non possiamo che trarne la conclusione che è meglio abbandonare la speranza che la sinistra possa mai aiutarci ad affrontare le sfide future. Quindi smettiamola di sprecare energie cercando di spiegare il nostro punto di vista. Piuttosto focalizziamoci su un’alternativa profonda.

 

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[1] Articolo adattato da: Claudia von Werlhof, “Keine Kapitalismus-Kritik ohne Patiarchat-kritik! Warum die Linke keine Altenative ist”, Widerspruch Bieträge zu sozialistischer Politk, Nr.50: Halbjahr, 2006, Zϋrich, pp.99-111;riportato in CNS – Capitalismo – natura – socialismo, Vol.18, nr. 1, New York/Londra (Routledge), marzo 2007, pp, 13-27

[2] Maria Meis, “Metodisce Postulate zur Frauenforschung” dargestellt am Beispiel der Gewalt gegen Frauen, Beiträge zur feministischen Theorie und Praxis, Nr. 1: Erste Orientierungen, München, pp. 41-63. Maria Mies, Patriarchy and Accumulation on a World Scale: Women in the International Division of Labour (London, Zedpress, 1986). Claudia v. Werlhof, Veronika Bennholdt-Thomsen e Maria Mies, Frauen, die letzte Kolonie (Reinbek, Rowohlt, 1983), in inglese, Women, the Last Colony (London, Zedpress, 1988). Claudia v. Werlhof, “Frauenarbeit: der blinde Fleck in der Kritik der politischen Ökonomie”, Beiträge zur feministischen Theorie und Praxis, Nr.1, München, 1978, pp.18-32. Claudia v. Werlhof, Wenn die Bauern wiederkommen. Frauen, Arbeit und Agrobusiness in Venezuela (Bremen, periferia/CON, 1985). Ariel Salleh, Ecofeminism as Politics: Nature, Marx and the Postmodern (London, Zedpress, 1997)

[3] Claudia v. Werlhof, „Lohn hat einen “Wert”, Leben nicht? Auseinandersetzung mit einer “linken” Frau”, Prokla, Nr. 50: Marx und der Marxismus, Berlin, 1983, pp.38-58

[4] Diane Bell e Renate Klein (eds.), Radically Speaking. Feminism Reclaimed (London, Zedpress, 1996). Claudia v. Werlhof, “(Haus) Frauen, “Gender” und die Schein-Macht des Patriarchats”, Widerspruch, Nr. 44, 23. Jg./1. Halbjahr 2003, Zürich, pp.173-189.

[5] Maria Mies e Claudia v. Werlhof (eds.), Lizenz zum Plündern. Das Multilaterale Abkommen über Investitionen – MAI – Globalisierung der Konzernherrschaft, und was wir dagegen tun können (Hamburg, Rotbuch, 1998)

[6] Sulla Scuola di Bielefeld vedi: Arbeitsgruppe Bielefelder Entwicklungssoziologen (ed.), Subsistenzproduktion und Akkumulation (Saarbrücken, Breitenbach, 1979). Veronika Bennholdt-Thomsen, “Marginalität in Lateinamerika. Eine Theoriekritik”, Lateinamerika. Analysen und Berichte, 3: Verelendungsprozesse und Widerstandsformen (Berlin, Olle & Wolter, 1980), pp.45-85. Veronika Bennholdt-Thomsen, “Subsistenzproduktion und erweiterte Reproduktion. Ein Beitrag zur Produktionsweisendiskussion”, Gesellschaft. Beiträge zur Marxschen Theorie, Nr. 14, Frankfurt, 1981, pp.30-51. Veronika Bennholdt-Thomsen, Bauern in Mexiko zwischen Subsistenz- und Warenproduktion (Frankfurt/New York, Campus, 1982). Claudia v. Werlhof, Veronika Bennholdt-Thomsen e Maria Mies 1983, ibid.; Maria Mies, 1986, ibid. Claudia v. Werlhof, 1985, op.cit. Claudia v. Werlhof, Was haben die Hühner mit dem Dollar zu tun? Frauen und Ökonomie (München, Frauenoffensive, 1991)

[7] Veronika Bennholdt-Thomsen 1980, ibid

[8]. Karl Marx in MEW (Marx-Engels-Werke), vol. 23, Das Kapital 1 (Berlin,1974, Dietz), pp. 168, 381, 391, 400, 424, 447

[9] Claudia v. Werlhof 1991 op.cit., Günther Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, 2 volumi (München, Beck, 1989)

[10] Rosa Luxemburg, The Accumulation of Capital (1913) (London, Routledge, 1967). André Gunder Frank, “On so-called Primitive Accumulation”, Dialectical Anthropology, No. 2, 1977, pp.87-106. Claudia v. Werlhof 1978, op.cit.

[11] Karl Marx, 1974, op.cit., pp. 741-744

[12] Veronika Bennholdt-Thomsen, 1981, op.cit.

[13] Maria Mies, 1986, op.cit.

[14] Claudia v. Werlhof, 1991, op.cit., Claudia v. Werlhof, Männliche Natur und künstliches Geschlecht. Texte zur Erkenntniskrise der Moderne (Wien, Frauenverlag, 1991b).

[15] Immanuel Wallerstein, “The Rise and Future Demise of the World Capitalist System: Concepts for Comparative Analysis”, Comparative Studies in Society and History, Vol. 16, No. 4, 1974, pp.387-415.

[16] Claudia v. Werlhof, “Wir werden das Leben unserer Kinder nicht dem Fortschritt opfern”, in Gambaroff, Marina et.al., Tschernobyl hat unser Leben verändert. Vom Ausstieg der Frauen (Reinbek, Rowohlt, 1986), pp.8-24; Maria Mies, 1986, op.cit., Maria Mies, Wider die Industrialisierung des Lebens (Pfaffenweiler, Centaurus, 1992). Maria Mies e Vandana Shiva, Ecofeminism (London, Zedpress, 1993). Renate Genth, Über Maschinisierung und Mimesis. Erfindungsgeist und mimetische Begabung im Widerstreit und ihre Bedeutung für das Mensch-Maschine-Verhältnis (Frankfurt/Paris/New York, Peter Lang, 2002). Claudia v. Werlhof, “Ökonomie, die praktische Seite der Religion. Zum Zusammenhang von Patriarchat, Kapitalismus und Christentum”, in Ulla Ernst et.al. (eds.), Ökonomie(M)macht Angst. Zum Verhältnis von Ökonomie und Religion (Frankfurt/Paris/New York, Peter Lang, 1997), pp. 95-121. Claudia v. Werlhof, “Patriarchat als “Alchemistisches System”. Die (Z)ErSetzung des Lebendigen”, in Maria Wolf (ed.), Optimierung und Zerstörung. Intertheoretische Analysen zum menschlich Lebendigen (Innsbruck, STUDIA, 2000), pp.13-31. Claudia v. Werlhof, “Losing Faith in Progress: Capitalist Patriarchy as an Alchemical System”, in Veronika Bennholdt-Thomsen, Nicholas Faraclas e Claudia v. Werlhof (eds.), There is an Alternative. Subsistence and Worldwide Resistance to Corporate Globalization (London, Zedpress, 2001), pp.15-40. Claudia v. Werlhof, “Using, Producing and Replacing Life?: Alchemy as Theory and Practice in Capitalism”, in Immanuel Wallerstein (ed.), The Modern World System in the Longue Durée (Boulder, paradigm, 2004b), pp. 65-78. Claudia v. Werlhof, “Natur, Maschine, Mimesis. Zur Kritik patriarchalischer Naturkonzepte”, Widerspruch, Nr. 47, 24. Jg./2. Halbjahr, 2004, Zürich, pp.155-171

[17] Claudia v. Werlhof, 1997, op.cit. Claudia v. Werlhof, 2000, op.cit. Claudia v. Werlhof, 2001, op.cit.

[18] Renate Genth, 2002, op.cit

[19]. Karl Marx, 1974, op.cit., pp.247, 209, 271, 446. Ernst Bloch, Naturrecht und menschliche Würde (Frankfurt, Suhrkamp, 1991)

[20] Carolyn Merchant, The Death of Nature: Women, Ecology and the Scientific Revolution (San Francisco, Harper & Row, 1983). Maria Mies e Vandana Shiva, 1993, op.cit., Claudia v. Werlhof, 2004, op.cit.

[21]. Genth, Renate, 2002, op.cit

[22]. Maria Mies, 1986, op.cit.

[23] Janice Raymond, Women as Wombs. Reproductive Technologies and the Battle over Women`s Freedom (San Francisco/Melbourne, Spinifex, 1994). Renate Klein, “Globalized Bodies in the Twenty-first Century: The Final Patriarchal Takeover?” in Veronika Bennholdt-Thomsen, Nicholas Faraclas e Claudia v.Werlhof (eds.) 2001, op.cit., pp. 91-105; Joseph Weizenbaum, Computer Power and Human Reason: From Judgement to Calculation (San Francisco, W.H. Freeman & Company, 1976). Jeremy Rifkin, Algeny (New York, Viking, 1983). Frank Schirrmacher (ed.), Die Darwin AG. Wie Nanotechnologie, Biotechnologie und Computer den neuen Menschen träumen (Köln, Kiepenheuer & Witsch, 2001)

[24] Widerspruch; Nr. 49, 25. Jg./2. Halbjahr 2005, Prekäre Arbeitsgesellschaft, Zürich. Vedi anche: http://en.wikipedia.org/wiki/Precarity

[25] Maria Mies, Krieg ohne Grenzen. Die neue Kolonisierung der Welt ( Köln, PapyRossa, 2004)

[26] Veronika Bennholdt-Thomsen, 1981, op.cit., Veronika Bennholdt-Thomsen, 1982, op.cit., Veronika Bennholdt-Thomsen, Juchitán – Stadt der Frauen. Vom Leben im Matriarchat (Reinbek, Rowohlt, 1994). Veronika Bennholdt-Thomsen, Brigitte Holzer e Christa Müller (eds.), Das Subsistenzhandbuch. Widerstandskulturen in Europa, Asien und Lateinamerika (Wien, Promedia, 1999). Veronika Bennholdt-Thomsen e Maria Mies, Eine Kuh für Hillary. Die Subsistenzperspektive (München, Frauenoffensive, 1995), in english, The Subsistence Perspective. Beyond the Globalized Ecobnomy (London, Zedpress, 1999). Maria Mies, 1986, op.cit., Maria Mies e Vandana Shiva, 1993, op.cit. Claudia v. Werlhof, 1985, op.cit., Claudia v. Werlhof 1991, op.cit.,. Claudia v. Werlhof, Veronika Bennholdt-Thomsen e Maria Mies, 1983, op.cit., Veronika Bennholdt-Thomsen, Nicholas Faraclas e Claudia v. Werlhof (eds.), There is an Alternatrive. Subsistence and Worldwide Resistance to Corporate Globalization (London:zedpress, 2001)

[27] Maria Maria Mies, Globalisierung von unten (Hamburg, Rotbuch, 2001). Veronika Bennholdt-Thomsen, Nicholas Faraclas e Claudia v. Werlhof (eds.) 2001, op.cit.

[28] Claudia v. Werlhof, 1985, op.cit., Claudia v. Werlhof, 1986, op.cit., Claudia v. Werlhof, 2001, op.cit., Claudia v. Werlhof, “Das Patriarchat als Negation des Matriarchats. Zur Perspektive eines Wahns“, in Heide Göttner-Abendroth (ed.), Gesellschaft in Balance. Dokumente vom 1. Weltkongress für Matriarchatsforshung 2003 (Stuttgart, Kohlhammer, 2006), in print. Claudia v. Werlhof, Annemarie Schweighofer e Werner Ernst (eds.), Herren-Los. Herrschaft – Erkenntnis – Lebensform (Frankfurt/Paris/New York, Peter Lang, 1996)

[29] Heide Göttner-Abendroth, Das Matriarchat I: Geschichte seiner Erforschung (Stuttgart, Kohlhammer, 1988). Veronika Bennholdt-Thomsen, 1994, op.cit., Claudia v. Werlhof, 1991, op.cit., Claudia v. Werlhof 1991b, op.cit., Claudia v. Werlhof, MutterLos. Frauen im Patriarchat zwischen Angleichung und Dissidenz (München, Frauenoffensive, 1996). Claudia v. Werlhof, „Frauen, Wissenschaft und Naturverhältnis. Oder: Was heißt heute Kritik am Patriarchat?”, Widerspruch, Nr. 34, 17. Jg./ 1. Halbjahr 1997b, Zürich, pp.147-170. Claudia v. Werlhof, 2000, op.cit., Claudia v. Werlhof, „Gewalt und Geschlecht”, Widerspruch, Nr. 42, 22. Jg./1. Halbjahr 2002, Zürich, pp. 13-33; Claudia v. Werlhof, 2001, op.cit., Claudia v. Werlhof, 2003, op.cit., Claudia v. Werlhof, 2004, op.cit., Claudia v. Werlhof, 2006, op.cit.Le donne hanno sempre parlato di

[30] Maria Mies, 1986, op.cit.

[31] Marija Gimbutas, The Goddesses and Gods of Old Europe. 6500-3500 Myths and Cult Images (London, Thames & Hudson, 1984). Claudia v. Werlhof, 2002, op.cit.

[32] Maria Mies,“Über die Notwendigkeit, Europa zu entkolonisieren”, in Claudia v. Werlhof, Veronika Bennholdt-Thomsen e Nicholas Faraclas (eds.), Subsistenz und Widerstand. Alternativen zur Globalisierung (Wien, Promedia, 2003), pp.19-40

[33] Immanuel Wallerstein, 1974, op.cit., Ronald Wright, Eine kleine Geschichte des Fortschritts (Reinbek, Rowohlt, 2006)

[34] André Gunder Frank e Barry Gills (eds.), The World System. Five Hundred Years or Five Thousand? (London, Routledge, 1996)

[35] Claudia v. Werlhof, “The Utopia of a Motherless World – Patriarchy as War-System”, paper, 2nd World Congress of Matriarchal Studies: Societies of Peace, Austin 2005

[36] Claudia v. Werlhof, 2000, op.cit., Claudia v. Werlhof, 2001, op.cit., Claudia v. Werlhof, 2006, op.cit.

[37] Christel Neusüß, Die Kopfgeburten der Arbeiterbewegung. Oder: Die Genossin Luxemburg bringt alles durcheinander (Hamburg, Rasch & Röhrig, 1985)

[38] Otto Ullrich, Technik und Herrschaft. Vom Handwerk zur verdinglichten Blockstruktur industrieller Produktion (Frankfurt, Suhrkamp, 1977)

[39] Jeremy Rifkin, 1983, op.cit., Frank Schirrmacher, 2001, op.cit.,

[40] Damien Broderick, Die molekulare Manufaktur. Wie Nanotechnologie unsere Zukunft beeinflusst (Reinbek, Rowohlt, 2004). Bernhard Irrgang, Posthumanes Menschsein? (Wiesbaden, Franz Steiner, 2005). Martin Kurthen, Die dritte Natur. Über posthumane Faktizität (Münster:LIT, 2004)

[41] Nota del traduttore: il termine tedesco per “profondità/depth”è “Tiefe”. Non è stato possibile rendere in italiano (né nella versione inglese da cui si è tradotto) il gioco di parole dell’autrice: “alternativa/alternative”/ “Alterna-Tiefe”.

[42] Immanuel Wallerstein, “World System versus World Systems. A critique”, in André Gunder Frank e Barry Gills (eds.), 1999, op.cit., pp. 292-296

[43] Dirk Baecker (ed.), Kapitalismus als Religion ( Berlin, Kadmos, 2003)

[44] Mario Erdheim, Die gesellschaftliche Produktion von Unbewusstheit (Frankfurt, Suhrkamp, 1984)

[45] Heide Göttner-Abendroth, 1988, op.cit., Veronika Bennholdt-Thomsen, 1994, op.cit., Renate Genth, “Matriarchat als zweite Kultur”, in Claudia v. Werlhof, Annemarie Schweighofer e Werner Ernst (eds.), 1996, op.cit., pp. 17-38. Veronika Bennholdt-Thomsen, Nicholas Faraclas e Claudia v. Werlhof (eds.), 2001, op.cit., Claudia v. Werlhof, 2006, op.cit., Claudia v. Werlhof, “Capitalist Patriarchy and the Struggle for a “Deep” Alternative”, in Genevieve Vaughan (ed.), A Radically Different World View is Possible. The Gift-Economy Inside and Outside Patriarchal Capitalism (Toronto, Iinnana, 2006a).