Documenti: Donne, povertà, globalizzazione

Donne, povertà, globalizzazione

Nicoletta Cocchi

Il tema da cui vorrei partire è la femminilizzazione della povertà vista  nel quadro più vasto della globalizzazione, un fenomeno sempre più diffuso, al nord come al sud, per arrivare poi alla questione delle madri adoloscenti, che di quella povertà è in larga parte il prodotto.

Il livello di povertà delle donne sta aumentando in tutto il mondo e sempre più spesso sulle loro spalle si costruiscono economie di sopravvivenza, una condizione questa, che assume naturalmente  caratteristiche diverse nelle due parti del mondo, pur mantenendo elementi di continuità, rintracciabili per esempio nella  maggiore flessibilità e precarizzazione del lavoro femminile rispetto a quella maschile, nel divario della retribuzione, nell’assegnazione alle donne di compiti poco qualificati,  per citarne solo alcuni.

Nelle  economie dei paesi in via di sviluppo questi aspetti risaltano con maggiore chiarezza   perché si confrontano con gli esiti dei processi di ristrutturazione economica e degli  aggiustamenti strutturali, in parte avvenuti negli anni ‘80 e ‘90, e in parte tuttora in corso, che hanno rivoluzionato il modo di produrre e di organizzare la sfera della riproduzione. Che cosa è successo, in sintesi? E’ successo che in seguito alla destrutturazione delle economie di sussistenza, prevalentemente legate al lavoro agricolo e alla gestione collettiva delle terre – e, questione di non poco conto, lavoro in gran parte svolto dalle donne – è stato avviato un processo di privatizzazione ed espropriazione delle terre che, insieme a molti altri cambiamenti,  ha  innescato  quei meccanismi di promozione della competizione del mercato che ben conosciamo, avviando queste economie  verso  un tipo di sviluppo improntato al nostro modello economico occidentale. Tra i molti fattori che hanno contribuito a questo cambiamento vanno annoverate certamente le politiche dei governi locali, che per far fronte alle politiche del debito, hanno dovuto seguire le direttive del Fondo Monetario Internazionale, il cui obiettivo primario è  di favorire le esportazioni  e le importazioni attraverso la liberalizzazione del commercio, riorganizzando secondo i propri  fini il modo di produzione e riproduzione di questi paesi.

Ingenti spostamenti di capitali dal nord verso sud sono stati investiti, quindi,  in nuove aree di industrializzazione, con il risultato di produrre  la devastazione di  interi territori, costringendo  gran parte della popolazione a spostarsi  verso le città dalle zone rurali.  E’ così che intere economie di sussistenza non prioritariamente legate a un’economia monetaria sono state distrutte, e con esse, intere culture,   modi di vivere e di fare società.  Le donne sono state le prime a essere colpite perché  da sempre la loro sopravvivenza si fonda su quella forma di economia.

Chi costretta perché in quei villaggi ora sorgono dighe, chi spinta dal miraggio di un’occupazione meglio retribuita e da condizioni di vita più agiate, ha lasciato le campagne. Di fatto poi, nelle città le condizioni e le pretese di vita delle lavoratrici e dei  lavoratori si sono abbassate perché  il mercato del lavoro, una volta  entrato nelle mani di  chi  opera  per conto delle multinazionali e delle piccole oligarchie locali, è  diventato una merce come tante altre, sottoposta ai meccanismi di competizione dell’economia globale.  Una migrazione massiccia questa, che ha lasciato i villaggi senza risorse a farsi la guerra tra loro..  Lo scenario che si presenta oggi è quello del degrado, della miseria, dell’indigenza, Deregolamentazione del lavoro, abbassamento dei salari, disoccupazione, povertà, esclusione sociale:  gli aspetti deteriori della modernità occidentale si scontrano qui con le antiche tradizioni  di quei luoghi, sfociando spesso in lotte, guerre, conflitti.

Ai margini delle città vediamo che proliferano grandi periferie, che spesso si presentano come una cornice fatta solo di baracche, dove normalmente mancano acqua, luce, cibo. Ed è proprio all’interno di questa realtà che troviamo il fenomeno delle maternità adolescenti, le ragazze madri. Gravidanze perlopiù non desiderate, dovute  spesso ad abusi sessuali di parenti, vicini, non di rado compiuti dallo stesso padre-padrigno, generalmente  convivente della madre – non va  dimenticato che in molti casi la madre è stata a sua volta ragazza-madre. E’ così che sulla figlia finiscono  per riversarsi  difficoltà economiche, esistenziali,  condanna morale, quand’anche la colpa di aver perpetuato un destino della famiglia che proprio lei, la figlia, invece, avrebbe dovuto riscattare. Competitività, rabbia, delusione sono i sentimenti più comuni, che finiscono per sfociano  solitamente nell’allontanamento della ragazza dalla famiglia d’origine, poi dalla scuola o dal lavoro, se c’è, e dal compagno, sempre che ci sia.  L’iter che ha inizio dopo il parto di solito è quello dell’ adozione, o per l’impossibilità economica di mantenere il bambino, o per le difficoltà esistenziali e psicologiche o  di salute della madre,  o per questioni legali. Generalmente il bambino viene adottato o dalla madre della ragazza o dai bisnonni, oppure se ne occupano i servizi, sempre che esistano. E’ così che si  costruisce la catena della cultura della povertà che si autorigenera all’infinito.

Il fenomeno delle madri adolescenti, oggi così diffuso in molti  paesi in via di sviluppo,  non esisteva  prima delle migrazioni in massa nelle città perché, nei contesti rurali, era  una condizione perlopiù accettata, e se anche pendeva una condanna morale sulla madre, il bambino era comunque riassorbito nel tessuto famigliare. Non va dimenticato, tra l’altro, che nella maggior parte di quei contesti non vigeva una concezione della famiglia nucleare, per cui responsabile del bambino era l’intero villaggio.

Madri adolescenti, industria del sesso, schiavitù infantili sono  il risultato di quei  processi di trasformazione che ho descritto prima, nei quali  le donne, come vedremo, sono un soggetto particolarmente penalizzato e a rischio. Per molti motivi, ne elenco inizialmente due di carattere sociale e culturale, quasi di costume.

Primo, perché nelle situazioni di crisi sociale dove  la sopravvivenza non sempre è garantita, le donne funzionano da parafulmine: come dire, quello che non funziona viene scaricato su di loro. Ecco allora che se ci sono epidemie,  miseria, disoccupazione, è colpa delle donne – colpa del maleficio di una strega, autrice del malocchio, “mangiatrice di anime” – che vengono  allora scacciate dalla comunità e relegate ai confini della città – a volte in veri e propri lager –  come succede per esempio in molti paesi dell’Africa.

Miseria e indigenza,  si sa, si trasformano rapidamente  in violenza, machismo, stupri, uccisioni. Dalle morti  per dote delle donne indiane  alle lapidazioni delle donne mussulmane, dalla pratica dell’acido per  sfigurare i volti delle donne del Bangladesh, agli stupri quotidiani nelle nostre tranquille case occidentali, nulla cambia. Ogni paese usa la propria fantasia in fatto di crimini perpetrati nei confronti delle donne.

Il secondo motivo è che  in presenza di situazioni di povertà e miseria sono quasi sempre le donne ad assumersi il sostentamento della famiglia , o inventandosi economie di sussistenza o adattandosi a lavori meno qualificati e  retribuiti,  visto che gli uomini sembrano più inclini alla depressione  e più facili prede dell’alcool.   E questo è uno dei tanti  aspetti sociali e culturali extra economici che ha a che fare con la ricomposizione del tessuto sociale, l’affermazione della vita,  che le donne compiono quotidianamente sia in situazioni di emergenza sia di normalità. Un aspetto, questo, difficilmente contabilizzabile nell’economia di quei paesi –  ma anche dei nostri –  che  viene  normalmente sottaciuto.

Non dimentichiamo poi che nel tessuto dei piccoli villaggi rurali, che sono la stragrande maggioranza in Africa,   le economie restano quelle di sussitenza e sono in gran parte in mano alle donne. Un’ immensa mole di lavoro non vista e non pagata, dunque un lavoro produttivo  non contabilizzato all’interno del pil che nei due terzi del mondo non solo esiste, ma mantiene in vita intere comunità. E’ un lavoro trasparente per  la scienza economica, ma non per le grandi agenzie delle politiche di sviluppo o della Banca Mondiale che negli anni ‘80, in piena fase di aggiustamenti strutturali, hanno aperto proprio un mercato di progetti per le donne, vedendone le potenzialità economiche, ma esclusivamente in termini di risparmio di risorse per  loro stessi, garantendo maggiore produttività per i loro investimenti e  risparmio  sulla spesa pubblica. Succede allora che si educano le donne alla prevenzione nella salute perché offre maggiori risultati che non  costruire ospedali, per esempio.  Ottima soluzione.   Però poi succede anche che in Africa, come faceva notare Paola Melchiori, dove le cliniche materne si trovavano ogni 7 km, ora sono  lontano 25 km;  il che significa che una donna che deve partorire è costretta a fare  25 km a piedi.  Dunque, alla fine degli anni’80 in quei paesi si è assistito a un peggioramento delle condizioni di vita e di salute  tanto da tornare agli stessi livelli della fine delle epoche coloniali.

Questa grande forza di ammortizzatore sociale che sono le donne non è allora poi così sconosciuta a chi pianifica le economie nelle aree di nuova industrialiazzazione  dei paesi in via di sviluppo, se  gran parte della popolazione lavoratrice impiegata sono proprio le donne, grazie  al minore costo del loro lavoro, alla migliore qualità,  alla loro atavica disponibilità ad adeguarsi a qualsiasi condizione.   Il  lavoro delle donne è  richiesto perché di qualità, scrupoloso, preciso, veloce. Quasi tutto il lavoro nell’ambito dell’elettronica nel sud est asiatico è svolto dalle donne – se ne parlò molto alcuni fa perché parecchie di loro furono colpite da una malattia agli occhi che le portò  alla cecità proprio a causa del lavoro minuzioso che erano costrette .a fare.  Ma anche  nei settori dell’agricoltura  le donne sono la forza-lavoro maggiormente impiegata, perché spesso sono lavori stagionali , e notoriamente la flessibilità è una modalità di impiego riservata più alle  donne che agli uomini. Ma anche nel più tradizionale ambito dei servizi domestici alle classi più agiate, le donne sono in prima fila. Ecco, allora, che le vediamo spostarsi.  Migranti instancabili  che spediscono a casa il loro salario.

Tutto questo per dire che i processi di ristrutturazione economica  e di aggiustamento  strutturale  nella globalizzazione di oggi, così come in altre fasi di accumulazione del capitale, non sono mai neutri e che, regolarmente, a questi processi corrisponde una generale femminilizzazione della povertà.  E’ successo  nell’Europa di qualche secolo fa,  quando le donne, e con loro gli uomini, strappati alle campagne, espropriati delle loro terre, si riversarono  nelle fabbriche delle città, costretti a sostenere orari di lavoro massacranti, sottopagate/i, sfruttate/i, svilite/i nella loro dignità. Un lavoro di fabbrica modellato sui bisogni congiunturali del mercato che utilizzava le donne come manodopera a basso costo, e quando  non servivano più perché il lavoro scarseggiava, ecco allora che venivano espulse. E anche odiate perché erano quelle che rubavano il lavoro agli uomini, così si diceva. E’ un’antica guerra quella contro le donne…In prima linea quando c’è bisogno di produrre ricchezza, espulse quando non servono più. La storia si ripete.