Documenti: Preferirei di no

PREFERIREI DI NO. PASSI FUORI DALL’AZIENDA MONDO

Nicoletta Cocchi

Vorrei partire dal “preferirei di no” del titolo del mio intervento. E’ una frase divenuta  ormai famosa, che ho preso in prestito da un bellissimo racconto di Melville, “Bartleby”.

Bartleby è  il protagonista del racconto, è un copista che lavora presso un notaio e che un bel giorno decide di non  voler   più copiare i documenti che gli sono stati dati in consegna. Ogni volta che il notaio gli commissiona un lavoro, Bartleby con voce paziente si limita  a dire “preferirei di no”, a volte in modo più secco dirà “ preferisco di no”, altre ancora “preferirei fare altre cose”.

E’ una frase  che prolifera e germina all’infinito nel racconto di Melville perché lentamente comincia a  insinuarsi nel linguaggio degli altri impiegati e del notaio stesso, seminando dubbi, creando confusione e incertezza, generando comportamenti strani che si propagano per  imitazione, contagio. Non è che Bartleby  rifiuti in assoluto di copiare i documenti, semplicemente si limita a ricusare un non- preferito, ponendo il notaio di fronte alla propria condizione di impossibilità  di accettare il presupposto di scegliere tra le opzioni che gli vengono date.  Man mano che il racconto procede  assistiamo poi all’inevitabile allontanamento del copista dall’ufficio e alla sua incarerazione, perché  Bartleby dopo molti preferirei di no preferirà anche non andarsene dall’ufficio  e stazionare  sul pianerottolo, cosa che getterà nella più totale confusione il povero notaio.

Naturalmente, il racconto  che è un piccolo capolavoro, si presta a differenti livelli di lettura,  ma qui vorrei adottare  il primo, il più immediato, quello appunto del preferirei non fare  ciò che mi si richiede  di fare e di essere, e quindi  muovermi  fuori, per così dire, sul  pianerottolo dell’azienda,  e possibilmente non rischiare il carcere e lasciarmi morire, come succede a Bartleby alla fine del racconto..

Dunque, che cosa preferirei non fare? Preferirei,  per esempio, non essere considerata  una “risorsa umana”, un “capitale umano o sociale”, e se mai mi licenziassero – cosa del tutto improbabile, visto che non sono assunta da nessuna parte –  preferirei non  essere valutata come  “riduzioni dei costi”, visto che ormai la parola “licenziamento” è bandita dal linguaggio aziendale perché troppo impegnativa, diretta, carica di significati negativi. E  preferirei anche non essere valutata come “intelligenza distribuita”, né tantomeno rientrare nel “quoziente emotivo” dell’impresa.

Risorse umane, capitale umano, sociale – queste imbarazzanti definizioni –  fanno parte del lessico aziendale e della cultura d’impresa e sono entrate ormai nel linguaggio comune; sono formule linguistiche che traducono precise visioni del mondo e ci dicono  che il lessico dell’azienda e la forma dell’organizzazione aziendale hanno investito di senso ogni parte della nostra esistenza, senza più che ce ne accorgiamo. Vediamo, per esempio,  che il paese stesso è chiamato azienda; il nostro presidente  del consiglio parla tranquillamente dell’azienda Italia senza che nessuno si stupisca, e ancor meno ci si stupisce che il settore della sanità, l’Usl, sia oggi la Ausl, azienda unità sanitaria locale.  Naturalmente,  che il Comune sia considerato un’azienda e i suoi cittadini gli stakeholders –  i portatori di interessi -, ha lasciato alcune di noi un po’ interdette, ma non abbiamo poi fatto tante storie  quando il nostro sindaco di Bologna, Cofferati,  con il piglio da sceriffo che lo contraddistingue, ce lo ha comunicato con nonchalance, non molto tempo fa, in un incontro pubblico  sul “bilancio di genere”.

Il fatto è che  qualsiasi forma di aggregazione umana, anche quella non finalizzata a  produrre profitti – dei  cittadini che eleggono il proprio  rappresentante – può essere descritta, analizzata e gestita con il linguaggio e gli strumenti di cui ci si serve x descrivere, analizzare e gestire le imprese.

E’ un processo onnivoro che investe tutti gli ambiti,  anche quelli che di  mercato non sono, e dove  invece determinanti,  per definizione,  dovrebbero essere fattori di tipo istituzionale, sociale, politico. E, naturalmente, investe la sfera della produzione del mercato vera e propria, la quale  attinge sempre più dalla vita privata e sociale le proprie risorse puntando sulle competenze linguistiche, comunicative, intellettuali, creative, di cura delle persone. I nuovi modi della produzione cosiddetta postfordista, lo sappiamo ormai, mettono  infatti in relazione livelli diversi di competenze, forniscono ricerca, creano l’immaginario comunicativo attraverso operatori pubblicitari, di marketing, creano il design, il logo ecc., divenendo sempre più un’impresa di servizi piuttosto che di prodotti. Lì si manipolano idee, iniziative, creatività, emozioni, esperienze che mettono al lavoro  competenze generiche maturate nella vita singola di ciascuno per essere   ottimizzate e raggiungere migliori soluzioni innovative. Le risorse umane, il capitale sociale, umano, appunto.

Vediamo, quindi, che realtà come l’ azienda, l’impresa, che fino a qualche tempo fa raccontavano mondi diversi rispetto a quelli del vivere sociale e privato presentano oggi  una compenetrazione strutturale, e in questo senso si può  leggere  l’aziendalizzazione del mondo – il mondo divenuto  azienda – come  una figura portante del nostro presente.  Dentro quel luogo, o meglio non-luogo,  perchè disseminato, molecolare, reticolare,  si gioca una partita molto importante, che non riguarda solo il nostro modo di lavorare,  ma anche il nostro modo di stare nelle cose, nel mondo, una partita dunque di natura politica. Da lì  passano  pratiche e discorsi che legittimano e ripartiscono  saperi e poteri, che a loro volta producono soggetti che danno forma poi al nostro agire. Si può dire che l’impresa, oggi, non ha un’organizzazione. E’ l’organizzazione. In quanto forma sistemica, reticolare e orizzontale,  raccoglie, elabora, trasmette  informazioni. Quando è  collegata al sistema formativo delle scuole e delle università e degli istituti di formazione esterni o interni all’azienda  sforna sapere, competenze, pratiche, discorsi.  Quando si traduce  nella politica istituzionale il suo linguaggio e la sua forma plasmano gli interessi dei cittadini,  che vengono considerati alla stregua di semplici utenti della società di mercato. Quando si traduce nel mercato della produzione tout court trasforma la vita privata e pubblica del singolo in servizio, merce.

Dunque, un’intreccio inestricabile tra sfera pubblica e privata che dovrebbe molto farci pensare, soprattutto  noi donne che sappiamo bene quanto la costruzione  dei confini tra  pubblico e privato abbia  determinato le nostre vite.  Sarebbe allora interessante riconsiderare la questione nodale dei confini tra privato e pubblico  elaborata negli anni dalla politica delle donne  alla luce dei mutamenti in atto nelle relazioni e  nei lavori, cercando di vederne le strumentalizzazioni, per esempio, nella cosiddetta femminilizzazione del lavoro  o dei lavori di cura in generale.  E’ importante  aprirsi a un discorso critico delle  pratiche e dei discorsi che sottendono alla concezione del mondo come impresa. Un discorso critico che valuti i modi e il funzionamento del potere nelle forme e nei luoghi in cui si manifestano  per limitarne la presa su di noi e su quello che ci circonda, e cominciare a praticare il “preferirei di no” proprio là dove agiscono, e cioè nei luoghi di lavoro,  nella sfera pubblica, nel rapporto con le istituzioni, con chi ci amministra, con chi gestisce il territorio, con chi decide ogni giorno  per noi.

Il che significa,  da un lato, cominciare a praticare nei luoghi di lavoro una responsabilità di pensiero critico nelle mansioni che si svolgono,  problematizzando  i contesti, essendo responsabili di ciò che si fa e si dice, si tratti del  campo della medicina, della comunicazione, della cura, come quello della ricerca e della tecnica. Perché se il linguaggio, la comunicazione, la relazione si presentano oggi come lavoro vivo finalizzato a produrre  capacità di innovazione, nuove soluzioni,  ottimizzazione per ottenere migliori prestazioni ecc., allora quel linguaggio e quelle relazioni sono degli  ambienti organizzativi, dei ricettacoli  di saper-dire, saper-fare, e  possono dunque assumere i connotati dell’ azione, così come era intesa da Arendt, e cioè la capacità di iniziare qualcosa di nuovo, imprevedibile nei suoi esiti. Non acconsentire, non portare sostegno a un certo tipo di produzione di discorsi e pratiche –  che diverranno poi i servizi, i prodotti, gli immaginari che consumiamo  – attraverso il linguaggio, le relazioni, la comunicazione, i comportamenti, il sapere, problematizzandone i contesti,  è  una politica che le donne per prime hanno portato nei luoghi di lavoro attraverso la mediazione della loro esperienza. Forse i risultati sono  tangibili solo in alcune aree molto ristrette, come l’università e la ricerca, meno in ambiti come la sanità, la scuola,  che sono tra quelli più frequentati dalle donne. Resta dunque molto da fare.

E dall’altro lato, quello della sfera  pubblica e delle politiche pubbliche,  non possiamo più prescindere da  una gestione partecipata  delle decisioni che ci riguardano, siano esse la costruzione di una discarica o di un inceneritore, o la presenza di un’azienda che inquina l’aria che  respiriamo, o la costruzione di un bilancio di genere o quant’altro. Credo che non ci resti che cominciare a smontare  i meccanismi uno per uno, lavorando sulle questioni  che più ci sono vicine, prossime,  collegandole con quelle più lontane, vedendone il  quadro d’insieme. Vederne l’impatto dell’una sull’altra. E considerare prospettive di priorità altre, pensare a modi diversi di governare le nostre vite, adattando il tempo ai bisogni e al contesto che abbiamo intorno. Non credo sia utile in questo momento elaborare programmi generali, pretendere la governamentalità del tutto, ma far risuonare piccoli passi avanti appoggiando strategie che, per quanto umili, sono cumulative.  Gruppi, movimenti, comitati, singoli, le mille facce della cosidetta società civile ci stanno raccontando questo.

E, naturalmente, aprirsi a modi diversi di fare impresa dove  condividere responsabilità,  immettere la propria esperienza,  i propri valori, pesi e misure. Reti  di economia solidale, alternativa, piccole produzioni locali in alternativa alla grande produzione industriale  perchè il mercato torni a essere un luogo di scambio e d’incontro, e non solo il luogo astratto delle transazioni monetarie.

Se  non ripensiamo il senso  della produttività e della funzione sociale del lavoro  e  creiamo  dunque degli spostamenti rispetto agli scenari già disegnati, non c’è spazio per il cambiamento.  Come spesso si dice,  il ’900 è stato il secolo dell’homo faber, il secolo in cui  sulla centralità del fare e della produzione è stata ridisegnata la  società, quello in cui l’uomo è stato ridotto alla sua funzione produttiva e il mondo a realtà fabbricata, e sulla totalità del lavoro è stata rifondata la sua etica (Revelli, 2001). Noi  donne abbiamo fatto la nostra parte, e tra contraddizioni, dilemmi di uguaglianze e differenze, accessi alla cittadinanza, pari opportunità, mimetismi, fughe e nomadismi  abbiamo giocato le nostre carte, che un po’ ci hanno cambiato la vita e  un po’ ce l’hanno lasciata come sempre, come dire, un po’ a lato delle cose. Proprio quando sembrava ne fossimo al centro. Perché  un progetto che vuole  colonizzare ogni mondo vitale e  che è animato  da un delirio di onnipotenza che tutto reinventa, tutto fabbrica, tutto produce, tutto consuma, e poco riproduce, è un mondo che non ha più la misura di ciò che è necessario e possibile e che non riconosce  più il senso  del limite;   è un progetto dunque nel quale  è difficile ritrovarsi, credo, e verso il quale dobbiamo concederci il beneficio del dubbio.  Ne va della nostra nostra sapienza, del nostro senso tempo, dei nostri desideri, e allora siamo sempre lì a rincorrerli,  siamo sempre lì a conciliarli..  Certo, in questo secolo abbiamo incominciato a svolgere professioni e a entrare in luoghi prima a noi interdetti,  abbiamo ottenuto diritti, cittadinanza, ma sempre sull’onda di un  paradosso di  eguaglianza che si nutre di un principio fondato sul neutro universale. E’ vero anche  che  tutto questo ci ha permesso di dire sì a ciò che sappiamo possibile, abbiamo incominciato ad amarci, a meritarci,  e anche questo è un fatto politico. Ma  entrare nel mondo attraverso una forma di cittadinanza che integra la differenza e la coniuga con l’eguaglianza oggi non ci basta più. Il nesso lavoro-cittadinanza è un nesso molto importante che dovremmo ridiscutere. Non voglio disconoscere il valore della mediazione del lavoro,  che certamente non produce solo libertà economica e simbolica ed è  una chiave d’accesso primaria allo spazio pubblico per produrne cambiamenti. Ma di fronte alla parcellizzazione e flessibilità del lavoro che si presentano oggi come dato strutturale e non congiunturale (e di fronte anche allo scollamento da quello che produciamo e di cui sempre più spesso non capiamo il senso, la finalità,) bisogna chiedersi che cosa resti della mediazione del lavoro e della  cittadinanza femminile, così com’è stata intesa finora. Riconoscere altre modalità al di là dell’inclusione nei meccanismi del mercato, altre forme e modi  di partecipare allo spazio pubblico stando nelle cose altrimenti – e dunque altri modi di essere considerate cittadine – può attivare cambiamenti che il solo stare dentro le norme delle convenzioni sociali del lavoro tradizionale  non riesce a prevedere.

Certo, questo comporta muoversi in territori scivolosi, poco sicuri, spesso privi di identità sociali certe, e senza il sostegno di quella certezza  economica e simbolica  che pur ci fortifica e rende il nostro passo più deciso. Ma se riusciamo  a trovare la nostra misura, e se le politiche sociali verranno anche in parte incontro  a queste nuove istanze, quello può diventare  uno spazio di grande libertà e cambiamento, che non fa dipendere il nostro valore dalle proiezioni dell’immaginario collettivo dominante – prestigio, carriera, appartenza a uno satus –  e che può  riconsegnarci a un tempo del desiderio che sa dirci quello che è necessario per la nostra vita. Credo  che siano in atto ormai da molto tempo, magari in modo confuso e incerto,  una trama di azioni da parte di individui/e che praticano quello spazio di libertà, attraverso rapporti sociali radicalmente differenti e che danno vita a differenti  modi di relazionarsi al lavoro, al fare, al sapere,  al tempo, alla politica. L’atteggiamento che li accomuna è il  non essere dove ci si aspetta, il sottrarsi, il fare  a meno, il  minare  la logica dei presupposti, il  ricusare un non preferito tra le opzioni che vengono loro proposte. Un po’ come faceva Bartleby con i suoi preferirei di no, i suoi preferirei fare altre cose… Chiamerei quella trama di azioni, centri di resistenza. Ed è da lì e dalle molte altre strategie imprevedibili disseminate nel mondo da donne e uomini anche in altre parti del mondo che forse può nascere qualcosa di nuovo, che non sia solo assenza della morte, ma reale presenza della vita.