La Venere di Savignano
Giovanni entrò nella camera da letto con in mano il lume acceso. Dal piano di sotto arrivava un rassicurante rumore di stoviglie. Era la cucina della locanda dove alcune donne stavano finendo di lavare i piatti. Giovanni si sentì confortato e prima di andare a letto prese dal suo sacco la lettera che Francesco gli aveva fatto avere da Reims. Il suo amico più caro era andato a lavorare la pietra per costruire e decorare la cattedrale. Era un po’ matto Francesco. Aveva abbandonato Bologna, il suo lavoro tranquillo di scrivano all’Università, un lavoro ideale per lui, un lavoro che lo teneva lontano da liti, risse e duelli e lo avvicinava invece a libri rari e stupendi. Forse era stato proprio un libro a spingerlo a partire. Francesco aveva tentato di spiegare le suggestioni che lo avrebbero portato lontano dalla sua città, dalla famiglia e dagli amici, ma nessuno aveva capito. Giovanni aprì la lettera e la rilesse per l’ennesima volta. Francesco gli parlava di questa splendida cattedrale che cresceva più in fretta di quanto ciascuno osasse sperare, come se tante volontà singole unite insieme producessero una forza e una potenza irresistibili. Alcuni parlavano di intervento divino, alcuni dicevano di aver visto gli angeli al lavoro, alcuni sentivano la presenza della Madonna che li proteggeva e donava loro poteri quasi soprannaturali. Francesco scolpiva nella pietra figure che sognava alla notte o che gli venivano suggerite da un frate che si muoveva silenzioso nel cantiere, mostrando agli artigiani piccoli disegni su vecchie pergamene o addirittura su antichissimi papiri. Spesso si trattava di di porte, di torri, di vasi, di rose. Giovanni lo sapeva, questi erano i simboli di Iside, la potentissima dea degli Egizi, di cui ancora qualcuno parlava e di cui qualcuno voleva mantenere viva la memoria. Eppure Francesco non era del tutto contento. Scriveva che si sentiva circondato dalle tenebre in fondo alle quali si riusciva a vedere un bagliore. – Aiutami a trovare questa luce – così finiva la lettera. Quando Giovanni l’aveva letta la prima volta, si era disperato, perché non sapeva cosa fare per il suo miglior amico. Poi all’improvviso l’illuminazione era arrivata con la potenza dolce e irresistibile di una marea. Giovanni si era ricordato di una strana donna, una guaritrice che viveva sola in un bosco sui fianchi del Colle della Guardia. Questa conservava nella sua capanna una statuetta. Era una statuetta misteriosa. Raffigurava il corpo nudo di una donna, sembrava un’opera molto antica e frutto di un lavoro abbastanza rozzo. Eppure questa statuetta, questo corpo di donna scatenavano emozioni inspiegabili, parlavano un linguaggio misterioso e indecifrabile, parlavano di sacro. Ma sembrava che la sacralità fosse così intrecciata alla vita, al corpo femminile, alla quotidianità che non era assolutamente riconducibile alle esperienze religiose a cui lui era abituato. Parlava di nascita, di morte e di rigenerazione, parlava di pace e di amore e suggeriva di capovolgere tutto per poter sperare di capire. E poi questo “idoletto” brillava. Era scolpito in una pietra, il serpentino, che conteneva tanti piccoli frammenti di cristallo che splendevano come gemme. Ecco il dono da portare a Francesco. Ecco la luce per illuminare le sue tenebre. La donna delle erbe, la guaritrice sembrava avergli letto nel pensiero. Gli aveva regalato la statuetta, piccola da stare dentro alla sua mano, regalandogli anche un sorriso enigmatico come se avesse capito meglio di lui il destino di quel misterioso oggetto. Giovanni la trovò in fondo al sacco, la tolse dalla pezza di stoffa in cui l’aveva avvolta, spense il lume e la guardò brillare nel buio. Ma in quel momento sentì lo scalpitio di cavalli che si fermavano sotto la finestra, voci maschili che gridavano minacciosamente, altre voci che supplicavano, rumori di stoviglie rotte e di mobili fracassati. La paura afferrò Giovanni, la statuetta gli sfuggì di mano e al buio non riuscì a trovarla. Allora velocemente scavalcò il davanzale e si calò fino a terra aggrappandosi ad un fusto d’edera. Raggiunse i suo cavallo, girò le spalle a Svignano e imboccò la strada per Bologna. Appena si sentì al sicuro, si voltò e nel buio vide un sinistro bagliore. Avevano incendiato la locanda. Avrebbe voluto piangere per sé, per la sua paura, per la sua incapacità di affrontare lo scontro fisico. Ma avrebbe voluto piangere anche per Francesco che non avrebbe potuto trovare la luce della statuetta per illuminare le sue tenebre. Era di questo che aveva sorriso la donna delle erbe? Era stato un sorriso di compatimento per aver visto nel futuro il fallimento della sua missione? No, quella donna piccola e misteriosa aveva visto molto più lontano. Aveva sorriso perché sapeva che molti secoli dopo quella statuetta sarebbe stata ritrovata per caso. Sapeva che l’avrebbero chiamata Venere, Madre e anche Dea. Sapeva che gli abitanti di Savignano le avrebbero dedicato un museo, perché tutti potessero ricordare i tempi lontani quando dio era ancora femmina.
Sandra Schiassi