In memoria di Marija Gimbutas 1994-2014

In memoria di Marija Gimbutas, 1994-2014

Di Mariagrazia Pelaia

Sono molto felice di essere oggi qui con voi per commemorare l’opera di una grande donna e studiosa, un’archeologa fondatrice di una nuova disciplina, l’archeomitologia, ancora fuori dall’ambito di ricerca strettamente accademico. Nonostante la Gimbutas abbia percorso una brillante carriera scientifica le sue principali tesi non sono state ancora vagliate dai colleghi con la dovuta attenzione. La sua ipotesi più importante è quella che sia esistita sul territorio europeo una civiltà evoluta e duratura, che ha preceduto quella che noi consideriamo l’unica sulla faccia della Terra, e cioè quella occidentale che prende le mosse da sumeri ed egizi. Secondo la ricostruzione della Gimbutas questa antica Civiltà si organizzava secondo un principio matrilineare e matristico, in cui la dimensione sacra, di primaria importanza, rivestiva lineamenti femminili, e cioè quelli di una Dea, molto più complessa della Grande Madre mediterranea di tempi più recenti. Una Dea che si identifica con l’intero universo, con cielo e terra – in armonia con i ritmi stagionali e naturali. Una concezione che porta il sacro direttamente nella vita quotidiana di ogni persona, nel Neolitico infatti il focolare è il luogo sacro di ogni casa, il pane e la ceramica fanno parte di un complesso mondo rituale che onora la vita nella sua incessante danza di Vita-Morte-Rinascita. Altro elemento scandaloso di questa civiltà è la sua natura pacifica e fortemente egualitaria. Non si trovano armi e raffigurazioni guerresche, solo l’amore del bello in tutte le sue forme, in particolare nell’aspetto ceramico, ma anche pittorico e architettonico, ma anche l’elevato grado di pulizia domestica riscontrato nelle abitazioni. Nell’ambito economico è rivoluzionaria: sono i tempi in cui nascono l’agricoltura e l’allevamento, e le risorse sono ripartite in modo che oggi definiremmo comunistico. Le scoperte di Marija Gimbutas infrangono quindi un tabu culturale. Infatti non a caso viene accettata all’unanimità dagli indoeuropeisti solo la sua ricostruzione della fine di questa civiltà che secondo lei ha preso le mosse dall’Europa sud-orientale proseguendo le culture anatoliche di Çatal Hüyük e Hacilar, e si è man mano spostata per sfuggire le invasioni di nuove popolazioni protoindoeuropee verso Occidente e verso Nord fino a comprendere tutto il continente europeo in un periodo che va dal 7000 al 3500 a.C. ca., arrivando al 1350 a.C. a Creta.

La parte archeologica della sua ricerca è rimasta invece in ombra, la stessa studiosa affermò di essere consapevole che era troppo presto per capire le sue scoperte, che ci sarebbero voluti altri 35 anni. Lo disse poco prima di morire. Oggi sono passati 20 anni. Dovremo aspettare altri 15… nel frattempo cerchiamo di non far spegnere le luci sul suo lavoro e di testimoniare l’evolvere del suo pionieristico percorso.

Marija Gimbutas nasce a Vilno in Lituania nel 1921. Possiamo sintetizzare così il suo percorso: dagli studi etnografici lituani, al dottorato in archeologia conseguito in Germania, all’imponente lavoro di traduzione svolto a Harvard e poi la cattedra di archeologia all’UCLA dal 1963 al 1989. Una vita di lavoro e di studio. La direzione di ricerca si è palesata da sé, cammin facendo. La vita stessa le ha indicato man mano come muoversi. La nascita lituana è già determinante: la vita contadina del suo paese era vicina al mondo dell’antica Europa, ancora nel XX secolo, grazie alla tarda cristianizzazione avvenuta nel XIV secolo, che è tuttora rimasta in superficie. Il senso del sacro della Madre Terra è una realtà che l’ha accolta fin da bambina, la sua gente era in grande comunione con la Natura, con le antiche dee riconosciute nelle forze naturali e persino nei serpenti, a cui si dedicava un culto particolare. Nei suoi studi etnografici in giovinezza raccoglie gli antichi canti popolari (dainas), pieni di dee e forze magiche naturali. L’elemento femminile è forte anche nella sua famiglia: sua madre è la prima donna medico in Lituania. La bimba e poi la ragazza viene incoraggiata ad essere indipendente, libera e creativa. Purtroppo la morte del padre quando ha 15 anni getta un’ombra sulla sua adolescenza, e precocemente inizia a interessarsi ai temi della morte e delle credenze sulla vita dopo la nascita. La sua tesi di laurea universitaria, ancora in Lituania, è sugli antichi usi funerari del suo popolo. Il padre insieme a sua madre sono attivisti del movimento di resistenza politico e culturale lituano, fanno studiare Marija nelle scuole lituane. Rinforzano il suo legame con quelle radici popolari e quel mondo un po’ fatato che ha trovato intorno a sé.

La seconda guerra mondiale e l’invasione sovietica la spingono alla fuga. Trova rifugio in Germania dove riesce a completare un dottorato in archeologia, sempre specializzandosi sulla preistoria lituana. E poi a Harvard un tuffo nella preistoria neolitica dell’Europa orientale, i cui testi fino al suo arrivo erano rimasti inaccessibili al mondo scientifico occidentale, per la scarsa familiarità con le lingue slave. Marija ha enormi competenze linguistiche, oltre all’inglese e al lituano conosce diverse lingue slave. Dopo aver dimostrato le sue capacità comincia a ottenere fondi per la pubblicazione del suo primo libro importante sull’archeologia dell’Europa orientale. La sua autorità in questo campo comincia a venire riconosciuta e dopo le importanti pubblicazioni viene la cattedra universitaria, ma in California. A Harvard in anni ancora di forte maschilismo imperante sarebbe stato impossibile per lei andare avanti. In California trova la sua dimensione ideale.

Dunque, l’incarico che suo malgrado le è piovuto addosso a Harvard approfondisce il suo patrimonio di conoscenze e la sua competenza. E con gli scavi europei dispone di una mole di nuovi reperti, soprattutto tante statuette femminili, con evidenti caratteristiche cultuali. Il suo amico e collega Colin Renfrew la prendeva in giro per il suo entusiamo nei confronti di questo enorme quantitativo di statuette che stava disseppellendo, prima ad Achilleion, poi a Sitagroi e Obre, e altri siti ancora.

La Gimbutas non aveva modelli con cui raffrontare i nuovi reperti che andavano accumulandosi, ha studiato, disegnato e classificato con passione certosina tutto quello che andava trovando. Ed è stato quel materiale che ha quasi preso da sé la parola e si è presentato. Le sue grandi doti intuitive e il suo talento nell’ascolto hanno fatto il resto. Queste doti si sono affinate nel suo grande lavoro di traduttrice. Dal lavoro di decodifica linguistica è venuto quello di decodifica di un linguaggio simbolico ignoto, che man mano ha svelato. E da qui anche l’ipotesi di un alfabeto più antico del sumero.

In Goddesses and Gods descrive il complesso pantheon e il ricco mondo rituale degli antichi europei neolitici. Un aneddoto: la prima edizione nel 1974 dovette uscire come Gods and Goddesses, solo con la seconda edizione del 1982 la Gimbutas poté ripristinare il titolo da lei deciso sulla base del numero notevolmente superiore di statuette femminili raccolte nei siti.

Nel Linguaggio della Dea (1989) il processo di decodifica si spinge in avanti e si fa ancora più organico.

Nella Civiltà della Dea (1991) la Gimbutas presenta un’esposizione sintetica di tutto il lavoro di ricerca durato una vita. L’edizione italiana da me tradotta e curata è uscita nel 2012-2013 per Stampa Alternativa, che ringrazio per la coraggiosa scelta di pubblicare un testo ponderoso e difficile per tutti i motivi già accennati. In questa versione si è scelto di dividere l’opera in due volumi, seguendo una divisione già decisa dall’Autrice (a pag. 7 della Prefazione, edizione italiana).

Poco tempo dopo aver compiuto quest’ultimo lavoro l’autrice si spegne, nel 1994, nella sua casa in California, dopo una lunga e dolorosa malattia affrontata in modo esemplare, senza fermare un attimo il lavoro e continuando anche a viaggiare. È sepolta in Lituania.

 

Il primo volume di Civiltà della Dea presenta un quadro cronologico di tutte le culture neolitiche europee: ogni singola popolazione viene situata geograficamente e descritta in base a reperti e siti rinvenuti. Sono tantissime, e c’è effettivamente un filo conduttore che si può visualizzare sfogliando il libro.

Cominciamo con la prefazione dal titolo: Cos’è la civiltà? In cui Marija Gimbutas ribadisce fermamente la sua tesi centrale. Il Neolitico ha avuto una Civiltà diversa dalla nostra, che finora si è considerata l’Unica. Sono stati tre-quattromila anni (e forse anche più) di vita pacifica, creativa ed equilibrata, in accordo con la Natura considerata un’entità sacra raffigurata in una Dea multiforme. Le prime immagini sacre dell’umanità hanno tratti femminili, questo è un dato di fatto supportato da centinaia e centinaia di statuette, in cui vengono messi in primo piano natiche, seni, ventri, vulve, e certo non per intento erotico-pornografico, dato che di piacevole queste grassone o secchissime donne dai tratti somatici quasi cancellati o nascosti da maschere hanno ben poco. Più che strumenti di piacere o giocattoli a prima vista possono sembrare dei mostriciattoli (si pensi alle dee-rana di Lepenski Vir, simili alle Pussy Riot con balaklava), sono in realtà rappresentazioni simboliche molto precise e complesse, come intuito dalla Gimbutas.

Il primo capitolo è dedicato alle origini e alla diffusione dell’agricoltura, e ci porta nella penisola anatolica e nei siti di Çatal Hüyük (7250-6150 a.C.), la più grande città neolitica europea finora riportata alla luce, dove tutt’oggi sono in corso scavi (Ian Hodder), e Hacilar, altra cultura indipendente della regione (6500-5500 a.C.).

A Çatal Hüyük si trova un ciclo di affreschi mozzafiato, la cui complessità e bellezza non è certo opera di mano e mente primitiva, come a noi piace immaginare la preistoria. Ritroviamo sulle pareti di questo sito una simbologia che confluisce in epoca successiva nell’ambito mediterraneo (la Dea avvoltoio, i bucrani, le raffigurazioni animali, le Elibelinde eccetera, mentre invece alcune raffigurazioni, come la Dea partoriente, scompaiono nei tempi storici, sopravvive solo l’iconografia della madre con bambino post-parto).

Nei capitoli successivi si descrive un movimento inarrestabile di espansione che si allarga dalla penisola anatolica. L’Antica Europa nel suo nucleo più antico si sviluppa nella regione sudorientale, nella penisola balcanica e lungo il bacino del Danubio, sono questi i luoghi delle nostre vere radici europee. Nomi che a noi oggi non dicono niente sono le popolazioni autoctone e nostre antenate. Le più antiche sono le culture Starčevo, Sesklo, Karanovo, ceramica lineare, Bükk e Bug-Dnestr, tra il 6500 e il 5500 a.C.

Arriviamo all’apice della civiltà dell’antica Europa nel 5500-3500 a.C. con le culture Danilo, Hvar, Butmir, Vinča, Tibisco, Lengyel, Boian, Hamangia, Karanovo, Petresti, Cucuteni, Dnepr-Donec. Queste culture si estendono sul territorio oggi occupato da Bulgaria, Romania, Moldavia, Ucraina, paesi dell’ex Jugoslavia, Grecia settentrionale, e a nord fino in Ungheria.

Man mano che le ondate Kurgan portano alla dissoluzione di questo complesso culturale fra 4400 a.C. e 3000 a.C. ca., si nota uno spostamento di queste culture verso nord, verso occidente e lungo la costa mediterranea. Riemergono con nomi diversi, ma i manufatti, le abitazioni, le sepolture, i reperti ceramici hanno tratti comuni. Nel Nord abbiamo la cultura del Bicchiere imbutiforme e le culture Nemunas e Narva (paesi del Baltico). In Italia troviamo Passo di Corvo nel Tavoliere di Puglia (6500-5000 a.C.), dove oggi abbiamo uno dei siti neolitici più grandi d’Europa. In Sardegna e Corsica la cultura di Ozieri (dal settimo millennio al quarto millennio a.C.). Un grande complesso neolitico mediterraneo è a Malta (dal VI al III millennio a.C.). Ad occidente tra Svizzera e Francia abbiamo la Cultura di Chassey (V-VI millennio a.C.), la cultura di Lagozza (Vasi a bocca quadrata, prima metà del Quinto millennio a.C.), la cultura di Cortaillod (IV millennio a.C.). In Francia e nella penisola iberica ci sono tombe megalitiche (fra V e III millennio) e infine i complessi megalitici di Bretagna, Inghilterra e Irlanda (4500 a.C.).

Per tutte queste popolazioni vengono fornite descrizioni dettagliate: stratigrafie, cronologie, serie ceramiche, utensileria, piante degli abitati e necropoli e informazioni sul tipo di reperti presenti con informazioni del contesto di ritrovamento quando disponibili.

Mentre il primo volume è una descrizione cronologica quantitativa delle varie culture neolitiche europee che formano la civiltà dell’antica Europa, il secondo volume presenta un quadro di insieme interpretativo. I grandi temi affrontati da Marija Gimbutas dal capitolo sette al capitolo dieci sono la religione della Dea, la scrittura sacra, la struttura sociale e la fine dell’antica Europa con l’invasione delle popolazioni Kurgan indoeuropee provenienti dalle steppe russe meridionali.

Per quanto riguarda la religione nel capitolo Sette si evidenzia il culto di una grande Dea le cui radici affondano nel Paleolitico. Le prime immagini femminili e animali scolpite su pietra risalgono a cinquecento mila anni fa, pietre triangolari su sepolture e coppelle scolpite sono ricorrenti, ma questo primitivo simbolismo religioso non è ancora stato studiato con sistematicità. Nel Paleolitico superiore a partire dal 25000 a.C. compaiono le famose veneri preistoriche, con natiche e seni di volume esagerato, che si è tentato inizialmente di considerare strumenti magici per propiziare la fertilità ed eccitare la sessualità maschile. Nel Neolitico vi è una continuità iconografica con le veneri paleolitiche ma le statuette, ritrovate in numero copioso nei siti scavati, presentano una varietà di stili e motivi sorprendente e vario. La Gimbutas ha identificato e classificato questo pantheon che perlopiù è composto da divinità femminili, ma c’è anche una quota minoritaria di statuette maschili. Alle varie dee si associa un sistema di segni geometrici e astratti, in cui si individuano repertori iconografici: il triangolo e la V stilizzazione del pube, la linea tripla, la X raddoppiamento della V, meandri, puntini, coppelle, labirinti, zigzag, losanghe, spirali… Le statuette evidenziano i tratti sessuali femminili: vulve e seni. Le dee sono spesso raffigurate in compagnia di animali e a volte sono rappresentate con tratti zoomorfici, come la Dea Uccello e la Dea serpente, le due tradizioni iconografiche più ricorrenti.

Queste rappresentazioni sotto forma di statuetta o pittura vascolare offrono un vasto materiale da decodificare (descritto ampiamente nel Linguaggio della Dea), un mondo creato grazie all’invenzione della ceramica e che è caratterizzato da una raffinata fioritura artistica. Questo corpus iconografico può essere utile anche alla comprensione dei più antichi motivi paleolitici (attualmente Genevieve von Petzinger compie un inventario di tutti i segni trovati in tutto il mondo a partire dal Paleolitico).

Le statuette, caratterizzate da ricchezza di acconciature e abbigliamenti, evocano un mondo in cui la componente rituale ha una grande importanza. Interessanti anche le principali zone di rinvenimento: intorno ai forni nelle case e nei cortili, nei templi (che hanno una dimensione domestica in cui il forno è sempre elemento centrale e non si distinguono molto dalle abitazioni), nelle necropoli e nelle grotte. Questa grande produzione ceramica per uso sacro testimonia una grande partecipazione popolare ai riti e testimonia un forte legame con la Natura, i cicli naturali e la trasformazione. Si celebravano le energie vitali della Terra, e il loro incessante ciclo di fioritura, esaurimento e rigenerazione.

Nel capitolo Otto si approfondisce l’ipotesi che le popolazioni neolitiche avessero una scrittura. Questo è il punto centrale a sostegno della tesi della Gimbutas: l’esistenza di una civiltà europea nell’epoca neolitica molto più antica di quella sumera e babilonese, che viene attualmente considerata la prima civiltà umana. La Gimbutas non tenta di ricostruire un repertorio di segni completo e non propone la loro decifrazione sulla base delle lingue indoeuropee, come alcuni dilettanti stanno già tentando di fare. Questa lingua non era indoeuropea, così come il geroglifico cretese, il lineare A e il cipro-minoico, tuttora indecifrate per la stessa ragione. La Gimbutas auspica prima o poi il ritrovamento di una pietra di Rosetta multilinguistica, cosa che non si può del tutto escludere.

Questa scrittura si differenzia nettamente dall’antica scrittura sumera nata per scopi amministrativo-commerciali, quella dell’antica Europa è una scrittura congegnata per uso rituale, per un sofisticato culto della Dea. Le iscrizioni appaiono solo su oggetti religiosi, sono quindi dei geroglifici sacri.

Nel capitolo Nove si esamina la struttura sociale dell’antica Europa. Le società neolitiche rappresentano un’ulteriore evoluzione delle società della Dea paleolitiche, anzi tutte le più antiche civiltà del mondo sono state “civiltà della Dea” (Cina, Egitto, Tibet, Vicino Oriente ed Europa). L’agricoltura è un’invenzione femminile che ha offerto le migliori condizioni per perpetuare un sistema matrilineare ed endogamo, ereditato dai tempi paleolitici. Il matriclan aveva principi organizzativi collettivisti. Non esistono testimonianze di una società patriarcale, con tombe reali e palazzi costruiti su alture. I riti di sepoltura evidenziano una distribuzione della ricchezza egualitaria. La Gimbutas riconosce l’importanza degli studi sul matriarcato di Bachofen e di Briffault, i pionieri che hanno riportato questa realtà storica alla luce. Ma bisogna stare attenti a non considerare con i nostri occhi moderni queste lontane realtà sociali. Proprio per questo la Gimbutas preferisce evitare il termine di “matriarcato”, che evoca immediatamente una società gerarchica dominata da donne in cui gli uomini vengono cancellati. La Gimbutas preferisce parlare di matrismo, cioè una società matrilineare dove i sessi sono più o meno sullo stesso piano. Una società che potrebbe essere definita “gilania” come proposto da Riane Eisler, in cui i suffissi gyne e andros sono collegati dalla l di link (connettere) o del greco lyein (fondere) o lyo (liberare).

Nel capitolo Dieci si esaminano le ragioni che hanno portato alla fine della civiltà dell’antica Europa. Si è trattato di un processo di trasformazione culturale con cambiamenti drastici che ricorda la conquista europea del continente americano. Le testimonianze archeologiche sostenute dalla linguistica e dalla mitologia indoeuropea suggeriscono lo scontro di due ideologie, di due modelli socioeconomici. Da una parte l’antica Europa e dall’altra una popolazione nomade che a successive ondate invade il continente europeo, i Kurgan (protoindoeuropei), così denominati dalla Gimbutas dal nome della loro sepoltura tipica (collinetta a tumulo) già nel 1956. Da allora la preistoria e la storia europea divennero simili a una torta marmorizzata composta di elementi non indoeuropei e indoeuropei. Lo strato non indoeuropeo è quello dell’antica Europa, assimilata e trasformata dai nuovi invasori.

Dalla loro prima comparsa incomincia una fase che porterà alla decadenza e scomparsa dell’antica Europa. Fino al 4500-4300 a.C. non si erano trovate armi nelle sepolture e non vi erano insediamenti fortificati in altura. Ma con l’arrivo dei Kurgan a cavallo e armati, il paesaggio comincia a modificarsi.

La Gimbutas contrappone l’antica Europa pacifica, sedentaria, matrilocale, matrilineare ed egualitaria nei rapporti fra i generi ai Kurgan, guerrafondai, patriarcali e organizzati gerarchicamente, con riti di sepoltura legati a strutture a capanna di legno o pietra, coperte da un basso tumulo di pietre o una collinetta di terra. L’economia Kurgan è essenzialmente legata alla pastorizia, a un’agricoltura rudimentale e abitazioni temporanee parzialmente interrate. Le tre ondate di invasioni si hanno nel 4400-4300 a.C., nel 3500 a.C. e dopo il 3000 a.C. Non si tratta di un singolo gruppo ma di un certo numero di popolazioni delle steppe che condividevano una tradizione comune. La Gimbutas collega questo processo alla desertificazione nella Saharasia, che ha spinto popolazioni al nomadismo grazie all’uso del cavallo e alla pratica della pastorizia, anch’essa legata ai cicli di spostamento alla ricerca di pascoli per le bestie. Sono stili di vita che necessitano forza fisica e quindi più adatte a una popolazione maschile, che viene educata con una particolare corazza psicologica per resistere in queste condizioni di vita abbastanza estreme e dure. La Gimbutas si riferiva qui agli studi di Demeo.

Insieme i due volumi costituiscono al tempo stesso un classico della saggistica archeologica accademica e un testo di rottura che apre prospettive nuove nello studio del nostro antico passato, e che si può sintetizzare come un approccio metodologico interdisciplinare, definito archeomitologia.

Radunato il poderoso materiale, nella seconda parte dell’opera la Gimbutas si accinge a un lavoro di interpretazione e decodifica. La competenza linguistica le ha consentito di padroneggiare una mole immensa di dati, fino allora inaccessibili ai colleghi americani e anche a molti europei occidentali, alcuni messi personalmente a disposizione con numerosi scavi negli anni Sessanta-Settanta in Europa (Obre-Bosnia 1967-69, Anza-Stip, Macedonia 1969-70, Karanovo/Sitagroi-Drama, Grecia 1969-70, Tarčevo e Vinča, Macedonia 1969-71, Sesklo-Achilleion, Grecia 1973-74, Grotta Scaloria, Manfredonia, Puglia 1978-79).

Una grande mole di materiale proviene dai tell e dalle loro stratigrafie che consentono di ricostruire le fasi della ceramica. Ceramiche dipinte e incise di gran pregio e una sterminata serie di statuette. Se dal punto di vista dell’archeologia tradizionale il suo contributo è già stato eccezionale, la sua opera di ricostruzione ha dell’incredibile per capacità di analisi, sintesi e organizzazione.

La grande scoperta di una intera civiltà dell’antica Europa, più antica di quelle fino allora conosciute, e cioè quella sumera e quella egizia, è stata compiuta da una donna dell’Europa orientale, esule negli Stati Uniti, ai margini della locale comunità accademica negli anni in cui il sessismo imperava nelle istituzioni culturali americane… Eppure questa donna, nonostante restrizioni e difficoltà, ha saputo mettere insieme una mole imponente di dati e reperti che grazie alla sua intuizione ha ricomposto in un quadro persuasivo. I numerosi popoli e insediamenti e la grande quantità di statuette e vasi con caratteristiche variabili secondo luoghi e cronologia, con linee di continuità evidenti, hanno pian piano assunto forma omogenea e dalle nebbie del passato è emersa una nuova configurazione culturale inaspettata.

Su cosa ha basato la sua ardita ricostruzione?

Scrive Joan Marler, sua collaboratrice e oggi portavoce: “She moved freely among disciplines, combining archaeology with an extensive background in linguistics and an ongoing study of folklore and mythology. Gimbutas had the wisdom of a natural philosopher and the aesthetic perception of an artist” (la Gimbutas ha assommato diversi saperi: archeologia, linguistica, profonda conoscenza del folklore e della mitologia del suo paese, combinando la sapienza di un filosofo della natura con la percezione estetica di un artista; dalla prefazione di From the Realm of the Ancestors. An Anthology in Honor of Marija Gimbutas, Knowledge, Ideas & Trends 1997, citazione online leggibile in P. Harris, Joan Marler’s Realm of the Ancestors: http://www.metroactive.com/papers/sonoma/05.08.97/books2-9719.html)..

Alla fine della carriera volgendosi indietro finalmente ne prende coscienza, dando un nome alla nuova disciplina da lei fondata: archeomitologia.

È proprio questo il lato più debole del suo lavoro agli occhi dell’attuale comunità scientifica: la capacità intuitiva, visionaria e artistica con cui la studiosa ha tentato una ricostruzione olistica dei materiali analizzati (non è ammesso fare ipotesi sulla religione preistorica! È argomento tendenzioso e sfuggente, non ritenuto scientifico).

Come scrive Ernestine Elster, dapprima sua allieva, poi sua collega e amica e oggi sua biografa: “Inizialmente gli archeologi hanno fatto scena muta quando ha proposto le sue interpretazioni ardite e insolite sul ruolo delle onnipresenti statuette d’argilla e sulla proto-scrittura (segni incisi o dipinti sulla ceramica). Era la principale studiosa, la più accreditata, dell’Europa preistorica sud-orientale, con un’enorme padronanza di un vasto database internazionale. Era noto il suo grande rispetto per la comunità scientifica e il suo sistematico coinvolgimento di paleozoologi, paleobotanici, geografi, analisti litici e altri esperti nei suoi progetti di ricerca. Non era una pensatrice ‘estremista’, ma un’eccellente ricercatrice che pubblicava le sue idee sul pantheon preistorico e sul suo ruolo nella religione e nel simbolismo, un tema di discussione che gli studiosi della preistoria di quell’epoca erano restii ad affrontare. Inoltre la sua visione della preistoria era espressa in una sorta di narrazione. Anche se l’argomento erano i suoi scavi e usava sempre dati certi (datazioni al radiocarbonio, paleozoologia, e così via), il mondo preistorico veniva presentato in un potente affresco, coerente e indiscutibile […] Nella letteratura critica che ho consultato gli autori rifiutano la sua ‘ascendenza intellettuale’. Ma naturalmente lei rappresenta proprio questo nel movimento storico-culturale della seconda metà del secolo scorso: è l’archeologa che ha definito il programma delle ricerche in Occidente sulla questione dell’origine e degli spostamenti dei parlanti del protoindoeuropeo. Ha sintetizzato l’abbondante database dei suoi scavi grazie alla prodigiosa conoscenza dell’archeologia neolitica e calcolitica dell’Europa orientale, dei Balcani e della Grecia, e ha definito la regione ‘antica Europa’, dotata di una religione, un’economia e un’organizzazione sociale che si sono conservate intatte per oltre tre millenni. Ha presentato un’analisi del sistema di credenze e dell’organizzazione dell’antica Europa matrilocale, pacifica e impostata intorno a un pantheon di divinità femminili e maschili che presiedono alla fertilità e alla rigenerazione. Questo è più che proporre un programma di ricerca: costringe la disciplina a considerare seriamente una categoria di manufatti che fino ad allora erano stati ritenuti parte di un ‘culto’ e quindi non interpretabili finché la cultura popolare ha iniziato a celebrare le scoperte della Gimbutas. Gli archeologi alla fine hanno reagito sulle prime in modo infastidito (Fagan, Talalay, Conkey e Tringham), ma più recentemente (e nel momento in cui scrivo sono trascorsi più di dieci anni dalla morte di Marija Gimbutas) con importanti opere di estremo interesse (Hutton) che propongono approcci diversi allo studio (Chapman, Lesure) e all’interpretazione del ruolo del complesso di statuette dell’antica Europa (Bailey, Kokkinidou e Nikolaidou, Talalay)” (da: Le nuove scoperte dell’archeologia neolitica, in “Prometeo”, n° 121- marzo 2013, pp. 55-57; mia traduzione). Questa era la situazione dieci anni dopo la morte della Gimbutas, per un aggiornamento vi rimando alla mia Nota all’edizione italiana alla fine del primo volume. Oggi il quadro non è variato, semmai è proseguita l’opera di insabbiamento accademico, con eccezioni come la valorosa prof.ssa Di Filippo Balestrazzi che parlerà dopo di me e vi darà la sua testimonianza di docente che faceva il nome della Gimbutas nelle sue lezioni e la professoressa Barich di cui parlerò più avanti.

Come ho riportato nella Nota all’edizione italiana a p. 277, Joan Marler, che dirige l’Institute of Archaeomythology, raccogliendo l’archivio e l’eredità intellettuale della Gimbutas, e Harald Haarman, che è al lavoro sull’Old European script, in uno scritto congiunto concordano che per riconoscere il contributo dato dalla Gimbutas alla conoscenza della preistoria europea occorre un cambiamento di paradigma, ossia di punto di vista. E secondo loro bisogna puntare sull’interdisciplinarietà, ovvero proseguire il cammino già tracciato dalla Gimbutas proprio con l’archeomitologia e con la capacità di resistere all’insabbiamento delle sue scoperte da parte delle autorità culturali della sua epoca.

Scrivono Marler e Haarmann: “Non ci si può aspettare un progresso nella scienza, e nella storia della scrittura in particolare, se si aderisce alla descrizione di quanto è già noto e accettato dall’establishment accademico. Il consenso non è una chiave che apre prospettive rivoluzionarie nel mondo scientifico. Il progresso è determinato da un’esplorazione di nuovi orizzonti che provoca discussioni su temi controversi, e non un’onda di silenzio che avvolge le questioni sul tappeto non ancora risolte” (p. 277).

Nel mio giro recente di presentazioni della Civiltà della Dea mi sono imbattuta in chiusure e aperture da parte del mondo culturale e in particolare archeologico italiano. Le chiusure sono di due tipi: una aprioristica che si rifiuta persino di prendere in considerazione le ipotesi della Gimbutas, arrivando persino al dileggio gratuito della persona (al mio citare l’opera di recente tradotta un archeologo romano, di cui purtroppo non so il nome, esclama: “Ah perché scrive anche libri?”) e una che sostiene l’ipotesi e la metodologia della Gimbutas ormai superate (senza spiegare in che modo).

Le aperture vengono dal mondo archeologico che è uscito alla ricerca in altri continenti, come l’archeologa Barbara Barich, esperta di Neolitico nordafricano, fra le relatrici alla presentazione del libro a Roma, all’edizione 2012 di Più libri più liberi, secondo cui la Gimbutas anticipa nuovi indirizzi di ricerca che si stanno attualmente affermando: i postprocessuali e Hodder, che rivalutano la conoscenza non soggetta a osservazione diretta, e cioè l’aspetto simbolico-religioso deducibile dai reperti, seppure non codificato da documenti scritti. Secondo la Barich la Gimbutas merita simpatia e riconoscimento per essere stata una delle prime a proporre un disegno complessivo dell’epoca neolitica in Europa, rielaborando anche dati di altri colleghi. Quindi è molto importante la sua scoperta che l’aspetto simbolico religioso avesse un ruolo centrale in queste società e la Dea è simbolo del ruolo svolto dal genere femminile nell’ambito delle società agricole evidenziato dal legame tradizionale con la ceramica, simbolo di produzione e rigenerazione da assimilare alla fertilità della Terra. Speriamo che nel ventennale dalla morte della studiosa celebrazioni come questa siano occasione per riaprire l’esame della sua importante opera.

Ad ogni modo la sua grande rilettura del nostro passato ci dà degli spunti per affrontare la crisi attuale della nostra civiltà, il modello Kurgan che ha trionfato e ha creato una civiltà a forte gerarchia maschile, in cui dominio e guerra sono i pilastri fondanti. Dominio e guerra nei confronti della donna, dei deboli e della natura. A dire il vero l’antica cultura non è del tutto scomparsa, ha lasciato tracce nei miti, nel folklore, nell’arte e nella religione. Oggi ferve un lavoro di riscoperta. Per esempio Robert Graves e la sua ricerca sulla Dea nell’immaginario mitico e poetico antico, e le indagini mitico-antropologiche di Carlo Ginzburg, De Santillana, Mircea Eliade, eccetera.

Oggi tornare a un passato così diverso e vedere che si può realizzare un’alternativa su questa terra, perché già esistita (l’età dell’oro che diventa realtà storica), può incoraggiare il cambiamento, un futuro di evoluzione che dovrà passare per una nuova visione ecologica e culturale, in cui l’antica Europa potrà dare un ottimo esempio e punto di riferimento. A parte i dettagli e i singoli punti della ricostruzione ciò che conta è la visione nel suo insieme, di un mondo in pace e in equilibrio, in cui il principio femminile è rispettato e divinizzato, ma non prevaricante. Un mondo della partnership, per dirla con le parole di Riane Eisler, una degli studiosi che ha preso la ricerca di Gimbutas come base della propria.

Il tema è mantenuto vivo dalle ricercatrici interessate all’aspetto femminile della spiritualità e della creatività, alcune attive nell’ambito del movimento femminista anche italiano. Per esempio Luciana Percovich, che sta attualmente organizzando insieme all’associazione Laima un convegno dedicato a Marija Gimbutas (9 e 10 maggio, Roma, Casa delle Donne), in cui interverrò con una relazione (un’intervista alla figlia di Marija Gimbutas, Zivile).

 

 

Testo letto nella conferenza pubblica: In memoria delle scoperte al femminile. Marija Gimbutas e la civiltà della Dea: il lavoro e la passione di una vita che possono cambiare la storia,

Padova 7 marzo 2014.