Il neolitico europeo: altro che epoca buia!
IL NEOLITICO EUROPEO: ALTRO CHE EPOCA BUIA!
Perché è importante occuparsi seriamente dell’Antica Europa (o Civiltà danubiana), che risale almeno a 8000 anni fa e ha precorso i valori fondamentali
di Harald Haarmann e LaBGC
10 luglio 2018, “Frankfurter Rundschau”
Senza valori fondamentali nessuna società può funzionare. Ma cosa succede se questi valori vengono più esorcizzati che vissuti? Si profilano segnali di tempesta all’orizzonte. Nel frastuono dei cambiamenti radicali dell’Unione Europea siamo spinti alla ricerca di modelli che non solo tengano coesa l’alleanza, ma che facciano sentire a tutte le parti coinvolte il valore dell’essere uniti.
Per orientarsi è utile rivolgere lo sguardo a un’epoca in cui alcune società egualitarie stanziate nelle regioni più diverse coesistettero pacificamente le une accanto alle altre, le une insieme alle altre, e praticarono il commercio molto aldilà dei limiti delle proprie regioni, traendone tutte vantaggio. Si sta parlando di una delle più antiche civiltà del mondo: l’Antica Europa, che – unica nella storia dell’umanità – è esistita per più di tremila anni.
L’Unione Europea fu consolidata in un’epoca di prospettive politiche ben chiare e i suoi valori furono scritti sulle bandiere della fede nel progresso. Erano gli anni Novanta del secolo scorso, quando si pensava che la guerra fredda fosse irrevocabilmente finita, che la concezione della democrazia avrebbe gettato profonde radici anche negli Stati ex socialisti e che l’Unione Europea avrebbe continuato ad espandersi.
Ma la fede nella forza risanatrice dell’ordinamento democratico e della cooperazione che oltrepassa i confini cominciò a sgretolarsi. Quanto sia debole la democrazia da noi concepita e la nostra disponibilità alla cooperazione solidale nell’Unione Europea si è chiaramente mostrato con la crisi di Crimea, con la guerra in Siria e con la tragedia internazionale di coloro che sono in fuga, migranti e rifugiati.
Anche in seno all’Unione Europea c’è aria di crisi, laddove imperversano le chimere del populismo e del nazionalismo. Fino a che punto ci siamo avvicinati a un aperto conflitto ci viene mostrato dalla crisi della Catalogna. Dobbiamo affidare a ulteriori confini politici di nuovi Stati nazionali indipendenti il compito di spezzettare l’unità dell’Unione Europea? Dobbiamo sacrificare l’autodeterminazione delle regioni rispetto al potere centrale dei governi nazionali o della Commissione di Bruxelles sull’altare del bene comune dell’Unione Europea?
È quindi tanto più necessario far riferimento a valori fondamentali, sebbene chi dirige la politica in certi Paesi dell’Unione Europea sembra stia correndo il rischio di buttarli a mare con dubbi esperimenti. Di quali valori fondamentali stiamo parlando? Ben pochi potrebbero contestare i seguenti postulati ideali: diritto all’autodeterminazione dei popoli, uguaglianza di tutti gli esseri umani davanti alla legge, equiparazione dei sessi nella società e nei processi decisionali pubblici, economia di mercato fondata su principi, libertà individuale di determinare il proprio agire.
Si dice che gli antichi greci a un certo punto (per l’esattezza, nel 507 a.C.) abbiano avuto la brillante idea di introdurre un ordinamento democratico con valori fondamentali. Si attribuisce a Clistene il merito di avere inventato la democrazia ad Atene. Ogni cittadino ha ottenuto il diritto di determinare col proprio voto la composizione dell’assemblea popolare (ecclesia). D’accordo, ma l’autodeterminazione e le pari opportunità allora non avevano valore assoluto. Le donne di Atene avevano diritto di cittadinanza, ma non diritto di voto. Quindi godevano di una rappresentanza civica e politica meramente formale, ma non effettiva. E la società greca era divisa in liberi e non liberi, e i non liberi (schiavi) naturalmente non prendevano parte in alcun modo ai processi decisionali democratici. Quindi se in retrospettiva storica celebriamo la democrazia ateniese come conquista che ha cambiato il mondo, questo è a ben vedere un imbroglio.
E gli ideali della Rivoluzione francese del 1789? Liberté, égalité, fraternité sono parole altisonanti. Il rapporto reciproco di questi concetti fondamentali era pieno di contraddizioni già all’epoca. Il concetto di “uguaglianza” andrebbe applicato ad entrambi i sessi. E qui subito rileviamo i suoi limiti. L’equiparazione fra i sessi era soltanto una professione di fede formale per i rivoluzionari di quel tempo.
L’idea della libertà dell’individuo e della sua uguaglianza di fronte alla legge, elevata a icona dai fondatori degli Stati Uniti d’America nella Dichiarazione di Indipendenza del 1776, aveva anch’essa un valore limitato. A quel tempo l’abolizione della schiavitù era impopolare, e i rivoluzionari “rinviarono” il dibattito politico a un tempo a venire. Degli abitanti autoctoni (chiamati dagli europei “indiani”, cioè “abitanti dell’India”, dando prova di un’ignoranza trasmessa imperturbabilmente di generazione in generazione), gli Antichi Americani, non si parlava neppure. Sforzi seri per la loro equiparazione in quanto cittadini statunitensi furono intrapresi solo nel Ventesimo secolo.
L’idea fondamentale della moderna dottrina economica viene attribuita allo scozzese Adam Smith, che nella sua opera La ricchezza delle nazioni (1776) ha siglato l’abbiccì dell’economia di mercato. In seguito di fronte alle più recenti crisi economiche mondiali, l’autoregolazione dei mercati si è rivelata un mito.
L’economista Bengt Holmström, che nel 2016 ha ricevuto il Premio Nobel, pensa che nemmeno Adam Smith avesse capito quali devastanti effetti possono derivare da imprevedibili fattori di disturbo nella rete dell’economia di mercato. La dottrina di Smith ha reso possibile la nascita del capitalismo di rapina e non c’è da stupirsi se a un certo punto qualcuno gli è esploso contro con veemenza: Karl Marx. È stato necessario arrivare al Ventesimo secolo perché si creassero le basi di un’economia sociale di mercato nel senso vero e proprio, economia che attualmente viene minacciata più o meno clandestinamente da potenti burattinai (vedi: www.investigate-europe.eu).
Guerre, crisi, brevi periodi di pace. Perché l’esperienza di tremila anni pacifici non compare sul nostro schermo? Perché i canoni della nostra istruzione scolastica continuano a presentarci la Grecia classica come culla dei nostri valori fondamentali e prima dei poemi omerici si piomba nelle tenebre.
Sebbene gli archeologi nel frattempo abbiano cominciato a valutare la cosiddetta “epoca buia” quantomeno come “un po’ più chiara”, per adesso il cliché persevera. E rivolgendosi ancora più indietro, quindi all’epoca precedente ai Micenei e alla guerra di Troia, l’oscurità si infittisce, il che fa apparire senza prospettive la ricerca di tracce dei nostri valori fondamentali.
Eppure negli anni scorsi alcuni archeologi hanno scavato diligentemente nei Paesi del Sud-Est europeo e già prima della svolta politica del 1990-91 l’archeologa lituano-americana Marija Gimbutas aveva identificato e delineato nei suoi contorni una civiltà da lei chiamata “Antica Europa”, detta oggi anche “Civiltà danubiana”. Gimbutas postula che la comunità anticoeuropea avesse condizioni di vita pacifiche. I sostenitori della linea dura nel campo della ricerca sulle civiltà, che si sono votati alla dottrina dell’ “ex oriente lux” e che vedono la Mesopotamia come culla della civiltà, si sono fatti beffe di Gimbutas e hanno svalutato il suo costrutto teorico dell’Antica Europa bollandola come una velleità nostalgica femminista.
Tuttavia, a partire dall’inizio del Ventunesimo secolo, il caleidoscopio delle conoscenze sull’evoluzione delle culture nell’Antica Europa si è notevolmente ampliato tramite la ricerca in archeologia, nella storia della cultura e nella linguistica, acquisendo maggiore spessore. Alle persone esperte è noto che l’Antica Europa aveva sviluppato competenze tecnologiche e strutture sociali complesse, che nel mondo dell’epoca erano senza eguali. Intorno al 6000 a.C. nell’Antica Europa ha inizio uno stadio che conduce alla costruzione di una civiltà. Al più tardi intorno al 5300 a.C., l’Antica Europa si produce in primati mondiali:
– i fabbri anticoeuropei sviluppano procedimenti di fusione, dapprima del rame, e a partire dal 4600 a.C. anche dell’oro; fondono rame a tonnellate e fabbricano i primi manufatti d’oro del mondo;
– gli anticoeuropei edificano case a due piani e templi monumentali;
– il sistema di scrittura che adoperano è il più antico del mondo, almeno un millennio e mezzo più antico della scrittura anticoegizia o di quella sumera; hanno anche un sistema di segni per i numeri;
– nel Quinto millennio a.C. sorgono le prime città, alcune con più di diecimila abitanti su un’area di circa quattrocento ettari. Ci sono indizi di un’infrastruttura amministrativa con “consigli civici” nei singoli quartieri e un presidente eletto (paragonabile al demarchos greco nei villaggi).
Una cosa gli anticoeuropei non avevano, poiché di certo non ne avevano bisogno: i confini politici. Gli abitanti delle diverse regioni interagivano in un ambiente sociale privo di conflitti. Quello che li connetteva gli uni agli altri erano tradizioni culturali e strutture sociali simili; e soprattutto interessi commerciali. Lo stato di benessere dell’Antica Europa si basava su intensi rapporti commerciali attraverso il Danubio (da cui la denominazione “Civiltà danubiana”) e i suoi affluenti, nonché sul commercio marittimo dalle coste dell’Egeo al Mar Nero. Importanti centri commerciali erano Vinča (oggi in Serbia), Turda (oggi in Romania) e Varna (oggi in Bulgaria).
I rapporti commerciali si estendevano tanto lontano fin quando si trovavano partner che svolgevano le loro transazioni in un clima di reciproca fiducia. Che senso avrebbero avuto dei confini? La fiducia era l’asso nella manica, e solo sulla base di questa condizione fondamentale si rende comprensibile come la rete commerciale all’epoca potesse raggiungere un’estensione veramente internazionale: fino all’Asia Minore (Anatolia), verso Nord (Polonia) e verso Ovest (Francia, Inghilterra meridionale). La rotta commerciale si estendeva per oltre tremila chilometri. Le conoscenze di cui disponiamo sull’Antica Europa ci indicano che la società era egualitaria, con strutture amministrative democratiche ben funzionanti, e che era pacifica:
– le donne erano sullo stesso piano rispetto agli uomini. Gli archeologi concordano nel ritenere che uomini e donne lavorassero di comune accordo in molte attività artigianali e che il commercio fluviale fosse in mano alle donne;
– nelle città non furono rinvenuti quartieri di una élite signorile (dominante) o resti di palazzi, per il semplice motivo che non c’era nessun gruppo che rivendicasse uno status speciale. Anche gli arredi tombali non mostrano alcuna divisione fra ricchi e poveri. Si può riscontrare solo la venerazione verso alcune donne fondatrici di stirpi e clan familiari, visibile nelle dotazioni simboliche in alcune sepolture femminili;
– gli archeologi non hanno trovato mura difensive intorno agli insediamenti, né intorno ai villaggi, né intorno alle città, e nemmeno un solo strato di scavi conteneva indizi di distruzioni causate da incendi prodotti da interazioni belliche;
– il criterio guida universale era il bene comune. Lo standard di vita equilibrato per tutti era il risultato di una società basata sulla cooperazione, in cui interessi molto chiaramente comuni e condivisi avevano maggiore importanza delle aspirazioni individualistiche a moltiplicare la ricchezza privata. I proventi del commercio venivano distribuiti a coloro che partecipavano alla manifattura e all’attività commerciale, e la proprietà era in prevalenza comune.
Troviamo echi e risonanze del bene comune come valore fondamentale nella teoria politica di Platone, nel cui patrimonio di pensiero si specchia l’eredità culturale anticoeuropea, e cioè nell’espressione greca antica per “bene comune”, to agathon, prestito linguistico pregreco. Il vocabolo nella memoria culturale si correla con l’idea di formazione sociale collettiva.
La civiltà danubiana, i cui valori di base in sostanza si esprimono con il concetto di unione, fiorì stabilmente per un periodo di circa tremila anni, a partire dal 6000 a.C. ca. fino al 3000 a.C. ca. La fine dell’Antica Europa non giunse quindi a causa di un’instabilità intrinseca della società. Lo sviluppo fu per così dire modificato da cause di forza maggiore, come conseguenza di migrazioni di pastori nomadi provenienti dalle steppe della Russia meridionale.
Nel corso del Terzo millennio a.C. i greci conquistarono l’Ellade, i Traci la Bulgaria, gli Illiri i Balcani occidentali. Ciò che poi avvenne è ora oggetto di ampie ricerche: si giunse a una fusione dell’eredità culturale antico europea (compresi i suoi valori fondamentali) con le tradizioni indoeuropee, e fra queste ultime furono inglobate nella società anche le gerarchie sociali introdotte dai nomadi.
Vi sono due espressioni che rendono bene l’idea dello stravolgimento: amilla, col significato di ‘competizione pacifica’, ed eris, che significa ‘conflitto, discordia, scontro militare’. Amilla è voce pregreca e rispecchia la competizione pacifica nel commercio oppure nelle gare sportive. Eris è un vocabolo greco, impiegato per le numerose guerre fratricide dei greci. Forse in loro a causa delle continue attività di guerra si è rafforzato un nostalgico desiderio di pace. Altrimenti sarebbe difficile spiegare perché essi proprio per questo concetto di centrale importanza abbiano usato un prestito linguistico adattato dalla lingua degli anticoeuropei: eirene, ‘pace’.
Esiste un patrimonio dell’Antica Europa? Sì, di fatto esiste. Se volgiamo lo sguardo a quel tempo lontano e consideriamo quella società nella quale noi possiamo riconoscere i nostri valori fondamentali, traendo insegnamenti utili, possiamo riconoscere ciò che è costruttivo. La civiltà danubiana ha portato molta luce nella storia dell’umanità. Per noi oggi come oggi è visibile solo da una grande distanza storica e percepibile (forse) ancora solo un barlume. Tuttavia è una luce. Una luce che dovremmo utilizzare se vogliamo impegnarci a forgiare modelli per il futuro dell’Unione Europea.
Ancora una cosa: non può stupire il fatto che una società in cui operavano da tempo immemorabile valori elementari di convivenza comunitaria nello spirito dell’unione abbia sviluppato anche un’estetica artistica altrettanto antica. L’arte anticoeuropea ha vissuto la sua rinascenza nell’opera di Constantin Brancusi. Il regista cinematografico Viorel Costea sta girando un film per documentare l’ispirazione che Brancusi ha tratto dall’arte anticoeuropea.
Se si accostano i reperti artistici anticoeuropei riportati alla luce negli ultimi anni alle opere di Brancusi, comparando linee e forme ridotte all’essenziale, risalta subito il legame fra memoria culturale e ispirazione personale. Cosa ha rafforzato la predisposizione artistica del giovane Brancusi fino al punto da farlo rinunciare dopo un breve periodo alla fortunata opportunità di apprendistato nell’atelier di Auguste Rodin, un artista già affermato, per imboccare di propria spontanea iniziativa una strada diversa, comprendendo riflessivamente qualcosa che di certo non poteva aver visto con i propri occhi?
Traduzione dall’inglese di Mariagrazia Pelaia
Note biografiche
Harald Haarmann, nato nel 1946, è un linguista e storico della cultura. Dal 2003 è Vicepresidente dell’Istituto di Archeomitologia (con sede principale a Sebastopoli, California) e Direttore della succursale europea con sede in Finlandia. È autore di oltre cinquanta libri. Per il suo lavoro è stato insignito di numerosi riconoscimenti.
LaBGC, artista, vive in Spagna e indaga sulle forme estetico-culturali primordiali della vita. Il suo lavoro artistico semina tracce per la riscoperta di transculturalismo, universalismo e reti di connessioni.