Passaggi: com’è successo? Ipotesi

Quello che segue è un breve saggio scritto dopo aver partecipato nel 2007, al convegno di Bologna “Libri di donne, libri di dee”, dove invitando Mary Daly e Vicki Noble si era inteso aprire la riflessione verso la potenza del femminile, storica e non. Oggi con “Matriarcato: utopia e eutopia” i passi avanti che sono stati fatti sono enormi. Spero che l’apporto che Heide, Veronika e Genevieve hanno dato alla ricerca sulla possibilità di una (ri)configurazione del sociale al femminile, vi emozioni e vi sproni a partecipare alla costruzione di un’eutopia, come è successo a me.

PASSAGGI: COM’E’ SUCCESSO? IPOTESI

Il passaggio dal matriarcato, poiché siamo propense a credere che ci sia stato nella storia un ordine della madre a guida della società umana, al patriarcato, lento processo iniziato intorno al 4500 a.c. e conclusosi definitivamente in epoca cristiana, è testimoniato sia dall’evoluzione del mito che dai ritrovamenti archeologici. (Le datazioni si riferiscono per lo più al mondo occidentale e mediterraneo, anche se probabilmente per gli altri continenti le modalità, ma forse solo i tempi sono diversi). Sebbene non esista prova ineluttabile che le cose si siano svolte effettivamente in questo modo, riteniamo che ciò non sia di fondamentale importanza. In fondo nemmeno l’ordine patriarcale si basa su prove ineluttabili (non abbiamo una foto digitale di dio che consegna le tavole a Mosè né un fossile metà uomo e metà scimmia che confermi la teoria evoluzionista), ma ciò non ha impedito ai maschi di creare un vasto sistema di rappresentazioni che conferma in ogni ambito la loro superiorità, giustificando il modello neutro/maschile che da millenni ci propinano.

Questo passaggio, a detta di Giorgio Galli [in “Occidente Misterioso”, ristampato come Cromwell e Afrodite], non è stato scritto nella storia, ma confinato nel mondo dell’inconscio ed espresso nell’ arte, nella tragedia, nel momento del consolidamento del periodo greco classico, cioè alla conclusione vittoriosa per il maschio della prima guerra tra i sessi propriamente detta che si conosca. Ancora oggi è opinione comune, anche tra le femministe, che non siano mai esistite società matriarcali e che le Amazzoni facciano parte di un mondo leggendario, nonostante i ritrovamenti delle loro tombe in Siberia da parte di Janine Davis-Kimbell, che per la sua ricerca archeologica si è ispirata a episodi narrati nell’Iliade e ai testi degli storici dell’antichità. E ancora oggi mentre scrivo su un computer di ultima generazione con un programma di scrittura aggiornato, noto una fastidiosa sottolineatura rossa sotto la parola matriarcali che non appare sotto la parola patriarcali.

In questi tempi incerti di sfaldamento sociale facciamo qui la scelta di prestare fede e ampliare il messaggio che ci hanno lasciato le testimonianze della preistoria, così come è stato letto da Marija Gimbutas, condividendo l’intima convinzione di molte eco-femministe radicali e lesbiche, che i maschi e il loro sistema socio-politico non siano affatto in grado di garantire alla Terra non solo lo sviluppo, ma perfino la continuità. [Mary Daly e Vicki Noble, convegno “Libri di donne, libri di dee” – Bologna, 12 Novembre 2007].

La domanda che andremo a porre è “Perché è successo”? Come è potuto succedere che l’ordine materno delle prime società umane, sviluppatosi in sintonia con tutte le manifestazioni possibili della vita e della morte su questo pianeta, sia stato alla fine soppiantato dal patriarcato e che l’umanità tutta abbia intrapreso questa strada, compiendo una deviazione che ci ha allontanato sempre di più da quello che noi donne chiameremmo un agire con buon senso? Come e perché è stata sconfitta la potenza femminile in grado non solo di dare la vita, ma di assumersene anche la responsabilità e garantirle lo sviluppo e, non ultima, la felicità?

Prima di esporre tutte le ipotesi di cui siamo al momento a conoscenza e che speriamo di accrescere con i nostri incontri, è forse necessario fare tre cose:

1) levarsi dalla testa concetti come quello di evoluzione umana (teoria che ci condiziona enormemente ma che indaga con mezzi ridicoli su ciò che potrebbe essere successo 7 milioni di anni fa, mentre non ci è dato nemmeno di sapere quante persone muoiono ogni giorno in Iraq oggi)

2) allontanarsi il più possibile da dicotomie quali razionale/istintivo, scientifico/magico che in realtà non esistono (l’istinto non è stupido e la magia ci dà conoscenza)

3) dubitare di categorie come quella espressa dal termine obiettivo (che stranamente unisce a un bersaglio un alone di equilibrio)

Per un buon inizio saranno sufficienti e ci consentiranno di riflettere su come la verità sia, nonostante le loro reiterate e seducenti promesse, sempre più lontana e manipolabile dal sistema di rappresentanza che tutti ci domina, e su come siamo ben lungi dall’avere salute, sicurezza e felicità.

Fatto ciò, possiamo entrare nel vivo dell’analisi delle ipotesi, o se vogliamo delle convinzioni, con la consapevolezza che non c’è stato nessun ritrovamento sensazionale, né scoperta incontestabile a conferma di esse, ma soltanto un altro sguardo sulle tracce che il passato ci ha lasciato nascoste nei miti, nelle leggende, nell’arte popolare e nei manufatti, un nuovo coraggio nel pensiero e qualche occasione in più [negli anni ’70, Luciana Percovich, convegno “Libri di donne, libri di dee” – Bologna 12 Novembre 2007) di unirci e parlare insieme.

PARTIAMO da Marija Gimbutas: già molto prima delle sue ricerche, il movimento delle donne si era interrogato sui meccanismi che soggiacevano alla dominazione del sesso maschile su quello femminile, nutrendo forti dubbi che la sola conquista dei diritti civili avrebbe potuto portare a una vera liberazione della donna. Anche allora la biologia femminile sembrava a molte la causa delle “nostre” disgrazie, soprattutto per il legame che abbiamo sempre avuto con la riproduzione: quante volte abbiamo sentito dire che “poiché le donne curano la prole sono rimaste inevitabilmente (leggi naturalmente) indietro nella sfera pubblica, nella storia (la loro, degli uomini), nella politica”. Senza volere fare qui la storia del pensiero femminista (per nulla semplice nelle sue molteplici espressioni) possiamo però evidenziare due grandi filoni che hanno alla base una riflessione sulla maternità; un pensiero che valorizzava il materno nelle sue molteplici accezioni (pensiero della differenza, femminismo radicale americano) e una filosofia del suo superamento (Haraway, Braidotti) che teorizzava, grazie all’avvento delle nuove tecnologie, l’annullamento della rigida divisione dei sessi e la nascita di nuove modalità di procreazione, vedendovi un affrancamento da quel corpo biologico su cui tanto avevano congetturato le filosofie patriarcali. Nei vari paesi, (ma anche a livello di gruppi) il pensiero delle donne si articolava con parecchie diversità: e in America nasceva la corrente di ricerca intorno alla spiritualità femminile per gettare le basi di un diverso ordine simbolico nel quale riconoscersi. Quando vennero pubblicati i primi libri della Gimbutas, le femministe americane esultarono: finalmente c’era una qualche convalida basata sulla ricerca empirica dell’esistenza nella preistoria di ciò che avevano sempre intuito: un mondo che traeva le sue regole dal simbolico femminile. L’archeologa, basandosi sull’archeomitologia, individua verso il 5000/4500 a.c. una serie di invasioni dell’Europa da parte di popoli (i Kurgan) provenienti dalle steppe, che si spostavano a cavallo e che adoravano un dio maschio della guerra. Le fiorenti e pacifiche società che veneravano la Grande Madre (e di cui ci fornisce una chiara ed esaustiva immagine) vennero sconvolte e con esse la civiltà mediterranea: comparvero le armi, le uccisioni, il sangue non fu più quello mestruale del rinnovamento, ma quello della morte di cui il dio dei Kurgan si nutriva. Il contributo fondamentale di Gimbutas è stato quello di fornire un quadro logico in cui inserire le migliaia di tracce che il paleolitico e il neolitico ci avevano lasciato, per concludere che con l’invasione dei Kurgan e l’inizio della storia si interruppe il cammino umano verso la civilizzazione. Rovesciando l’assunto di Bachofen (matriarcato=preistoria=stato di natura e patriarcato=storia=civilizzazione) ha sollevato il dubbio che tante di noi nutrivano verso la civiltà della “nostra” (attuale) civiltà. Ma ha lasciato aperti sia il dibattito che la ricerca sulle cause del passaggio: perché, se in tutte le società dei primordi il primo rapporto con il sacro è femminile, i Kurgan vivevano in un ordine del padre, perché le popolazioni invase non si sono difese o non sono riuscite a includere anche gli invasori nella loro civiltà, perché anche società miracolosamente scampate all’assalto hanno poi assunto un sistema patriarcale?

Un chiarimento sul passaggio avvenuto ci può venire da “La Dea Doppia” di Vicki Noble. Seguendo le tracce di Gimbutas, il suo libro propone un’altra serie di informazioni provenienti dall’archeologia, dal mito e anche dalla storia scritta che ripercorrono i passaggi avvenuti nelle varie civiltà a ridosso del mediterraneo raccogliendo quanto il passato ci ha lasciato, ora di una terribile guerra fra i sessi, ora di consegne di potere da parte delle donne di fronte all’incombere della minaccia patriarcale, circoscrivendo gli avvenimenti dal neolitico all’inizio del periodo greco classico, mettendo in evidenza il buio di notizie che ha pervaso tutto il medioevo ellenico. Il suo intento è stato soprattutto quello di rintraccaire un potere/potenza femminile che ha comunque continuato a manifestarsi, anche se frammentariamente, nel corso di più di quattromila anni di storia, (ci riporta anche la recente e sensazionale scoperta di regine guerriere persino tra i Kurgan, avvenuta ad opera dell’archeologa Davis-Kimbell), a riprova che la resistenza delle donne, a cui comunque siamo chiamate anche oggi, non si è spenta sotto l’avvento del patriarcato né sotto le sue tappe successive verso la modernità. La sua è una sollecitazione a riprendere quella strada. Nell’introduzione del suo libro recupera la nostra biologia bipolare (legata alla luce e tenebra del ciclo lunare, alla vita e morte, al mondo del qui e dell’aldilà) proponendola come punto di forza per ricreare, da dee quali siamo, l’ordine simbolico che può e deve salvarci tutti/e.

Il libro di Noble non è l’unico che ci parla di questo nostro passato mistificato e strumentalizzato dall’uomo: la letteratura femminista ha condotto su questo tema moltissime ricerche ed elaborato infinite riflessioni: moltissime le scrittrici che nel corso degli ultimi vent’anni hanno indagato gli aspetti dei sistemi di controllo che il maschile elabora nei confronti del femminile, sulle possibili cause di tanta determinazione e solidarietà di gruppo a riguardo. Partendo sempre da come e perché si è manifestato il dominio dell’uomo sulla donna, le psicologhe junghiane hanno sondato gli aspetti dell’inconscio collettivo, formulando nel complesso una teoria che vede l’uomo, escluso dalla riproduzione, interiorizzare il suo senso di inferiorità di fronte alla donna e covare inconsciamente (e spesso nella nostra esperienza quotidiana ci accorgiamo che l’inconscio per loro, è proprio inconscio) sogni di rivalsa, necessità di affermazione individuale, ma meglio se di gruppo. E nonostante tutto il loro costrutto che ci vuole oggi tutte/i figli di dio padre sembra non siano riusciti a vincere la paura ancestrale della potenza femminile. La letteratura, dall’ebraica alla greca alla cristiana è piena di questa forma di fobia che accomuna tutto il genere maschile. Nemmeno un anno fa l’allora cardinale Ratzinger, nello scrivere le direttive per il comportamento del clero, esortava i sacerdoti ad andare per il mondo per essere in contatto con tutto il gregge, soprattutto gli emarginati, i disperati, i disoccupati ecc, ma consigliava di tenersi a debita distanza dalla donna che comunque rimane l’antica tentatrice.

In “La ferita e il re”, Giani Gallino, psicologa junghiana, analizza alcune permanenze nei riti che descrivono come l’esautorazione maschile del principio femminile abbia lasciato un senso di inadeguatezza nell’uomo. Conscio di non avere in sé lo stesso potere della donna, ha bisogno di riti con cui periodicamente si “riappropria” del principio femminile “travestendosi” (Sa Sartiglia) da donna o mestruando periodicamente come una donna (Il Re Magagnato). Quello che più colpisce è che sembra che la conoscenza scientifica del processo della riproduzione eterosessuale oggi come allora non abbia per nulla rassicurato l’inconscio collettivo maschile come se nel profondo riconoscessero che il principio della vita è da ascrivere al femminile.(vedi l’accanimento per il controllo della fertilità femminile espresso nella legge sulla fecondazione assistita) E’ allora di estremo interesse leggere “Partenogenesi oggi” di Marianne Wex, in cui si ipotizza della capacità tutta femminile di procreare senza l’intervento del maschio e, meraviglia delle meraviglie (è proprio il caso di dirlo), quello che si ottiene è una discendenza solo al femminile. L’autrice, che certamente non affronta l’argomento con rigore scientifico (ma come premessa a questa mia esposizione esortavo a diffidare della scienza del patriarcato), pensa che la partenogenesi sia stata la primordiale forma umana di riproduzione, a cui solo in seguito si è affiancata quella eterosessuale (che per noi oggi è l’unica), fortemente imposta dall’obbligo per la donna di prostituirsi a vita con un uomo a cui non poteva, né per la legge greco-romana né tanto meno per quella del dio cristiano, musulmano e chi più ne ha più ne metta, rifiutare il proprio corpo. Frustrata e sottomessa, la donna ha così perso col tempo una capacità che ha perfino dimenticato di avere avuto, costretta nella solitudine delle mura domestiche, sotto il costante controllo maschile che mirava a farle dimenticare che era la creatrice della vita. Quindi il fatto che anche nella psiche maschile sia rimasto durante i millenni un sottile dubbio su chi ha il potere di riprodursi mi ha molto colpito, e come l’autrice del libro, auspico che la ricerca (inutile dirlo, quasi inesistente sulla partenogenesi) vada avanti.

Questa appassionata domanda, quindi, che interroga sui motivi che hanno portato alla sottomissione e al controllo delle donne, alla quasi totale cancellazione della loro storia fino quando hanno potuto averla, e al loro allontanamento dall’avanscena, ha impegnato la testa, il cuore e il tempo di tantissime fra noi. Quello che sembra emergere è che forse non fu solo una ragione economica, o la psicologia malata del maschio o l’invasione di una tribù guerriera, ma tutti questi fatti insieme a causare la prima dominazione che la storia conosca: quella di un sesso su un altro. Negli studi antropologici (condotti sulle culture indigene) risulta abbastanza evidente in assenza di un elaborato costrutto culturale, che le donne sono temute, che tenerle sotto controllo rassicura e accresce l’identità del maschio, che il loro sfruttamento garantisce la ricchezza del gruppo dominante e rinsalda l’organizzazione patriarcale. Si pone allora impellente e più utile un’altra domanda: “Come abbiamo mai potuto permettere che tutto ciò avvenisse? Quali tra i nostri comportamenti sono stati (e purtroppo ancora sono) quelli che ci hanno rese subalterne?

Luisa Vicinelli  – Bologna   2007