Economia della sussistenza

Economia della sussistenza, economia globale, economia regionale

di Veronika Bennholdt-Thomsen

In: Jochimsen, Maren e Knobloch, Ulrike (a cura di): Economia dello spazio vitale in tempi di globalizzazione economica, Bielefeld: Casa editrice Kleine, 2006, pp. 65 – 88

La sussistenza comprende ogni tipo di aspetto materiale (cibo, abiti, alloggio) e immateriale (cura, relazioni sociali) della nostra esistenza quotidiana. Proprio per le caratteristiche della natura umana, la produzione di sussistenza non potrà mai scomparire, in caso contrario moriremmo. Quindi perfino in un’economia globalizzata le merci e i servizi non possono essere totalmente trasformati in prodotti di consumo. I risultati di ricerche empiriche condotte in una fertile regione della Germania centrale dimostrano quanto i bisogni legati alla sussistenza possano contribuire a mantenere o a reinventare le relazioni all’interno della comunità e anche gli scambi fra i territori. Contro il credo dominante che un’agricoltura completamente industrializzata, unita alla totale dipendenza dalle relazioni mercantili siano inevitabili in una Germania rurale altamente sviluppata, possiamo descrivere i molti elementi di un’economia formale e informale che nascono grazie a un approccio di sussistenza. Attraverso il racconto, la popolazione locale ha preso coscienza di ciò che essi stessi credono ben lungi dallo scomparire e hanno iniziato a pensarla diversamente sulle alternative possibili contro gli effetti distruttivi della globalizzazione.

L’economia della sussistenza è sempre esistita e sempre esisterà, fino a quando gli esseri umani vivranno sul globo terrestre. E’ proprio il caso di ricordare il famoso esperimento dell’imperatore Federico II, all’inizio del XXIII secolo, in cui ad alcuni bambini piccoli, dei trovatelli, è stato dato tutto ciò di cui avevano materialmente bisogno, senza però interagire con loro a livello umano. La leggenda narra che egli volesse scoprire in loro la “lingua primitiva”. Nessuno dei bambini è sopravvissuto.

Anche nel XXI secolo non potremmo sopravvivere in un regime di puro approvvigionamento materiale senza l’attenzione umana diretta: né come individui, né come gruppi. In altre parole, non tutti i beni e i servizi possono essere consumati a livello puramente commerciale, e meno che mai quelli di uso quotidiano, cioè quelli che appartengono alla produzione per la sussistenza. Persino la pizza surgelata deve essere acquistata, riscaldata e messa sul tavolo. Meglio ancora se si tratta di una tavola preparata con cura, con dei commensali conosciuti, in modo che il pasto sia piacevole. Nella società moderna stiamo attualmente vivendo un’esperienza che somiglia a quella di Federico II, nel XIII secolo. L’economia deve essere depurata dal fattore umano. Gli unici criteri validi sono i puri meccanismi del mercato. “Più i mercati sono distanti tra loro – il mercato delle materie prime dal mercato del lavoro di trasformazione fino al mercato del consumatore – e più il tutto viene considerato “economia”. E lo stesso criterio vale per gli organismi finanziari; devono essere estranei, lontani e difficilmente identificabili – banche, società per azioni, holding e la multinazionale che investe. Più i luoghi e paesaggi in cui nasce un prodotto sono sconosciuti, quindi meno si (ri)conosce l’uomo coinvolto nel processo produttivo, più sembra che si tratti di “vera e propria economia” (Baier/Bennholdt-Thomsen/Holzer 2005: 7)

Ma la produzione di sussistenza non scompare con l’industrializzazione e la proletarizzazione, cambia invece il suo carattere (Bennholdt-Thomsen 1981). Da modo di produzione determinante per tutti i rapporti sociali diventa semplice approvvigionamento, a quanto pare non più rilevante per la società. Anche nella percezione della critica di sinistra del mercato capitalista solo il lavoro retribuito nelle fabbriche e negli uffici è socialmente necessario (vedi Gorz 1989). Al lavoro di sussistenza, necessario per sopravvivere, non si attribuisce nessuno status sociale, anzi “lo si può tranquillamente affidare all’istinto di sopravvivenza e di riproduzione degli operai” – così si è espresso Marx (Marx 1962, MEW 23; 598). E Christel Neusüß commenta: “Anche qui le donne non hanno bisogno di loro (degli uomini operai) neppure per la riproduzione… Marx parte dal presupposto che io sia semplicemente così: caduta dal cielo a 18 anni tutta bella e pronta, forse durante una bella pioggia primaverile” (Neusüß 1990: 118, 117). Con l’industrializzazione e il capitalismo che prendono forma, la produzione di sussistenza viene resa sempre più invisibile, messa in secondo piano e valorizzata sempre di meno. Le si dedica sempre meno tempo, la sua qualità peggiora, la si fa in fretta e con meno attenzione. L’approvvigionamento diventa sempre più commerciale, dato che il mercato mondiale sostituisce progressivamente il mercato locale anche più astratto e anonimo. Con la globalizzazione il nostro collettivo-società subisce ciò che è stato fatto ai trovatelli di Federico II: come abitanti dell’emisfero nord della terra forse abbiamo tutto ciò che ci serve materialmente, molti ne hanno anche troppo, e ciò nonostante soffriamo di carenze. Ci manca l’attenzione umana, quel calore umano, quel senso di unione e sicurezza che l’economia di sussistenza comporta. I grandi problemi del nostro tempo sono l’isolamento, la solitudine e l’angoscia esistenziale, ma anche – visto che mancano progetti emancipatori – il ricorso a modelli di socialità razzisti e nazionalisti.

La distinzione tra l’economia di sussistenza e l’economia globale

Duranti gli anni ‘50 e ‘60, nel corso del dibattito internazionale sulle politiche per lo sviluppo, si diffonde l’idea che l’economia di sussistenza stia scomparendo, anzi, che debba scomparire. Secondo la concezione teorica ufficiale, l’economia, soprattutto quella dei cosiddetti paesi in via di sviluppo, viene divisa in due settori: quello tradizionale e quello moderno. L’economia di sussistenza prevarrebbe ancora soprattutto in campagna (settore tradizionale). Le misure da prendere per agevolare lo sviluppo consisterebbero nel “portare i contadini dall’agricoltura di sussistenza verso quella commerciale” (Worldbank 1975: 20).

Con tutti i discorsi su sviluppo e sottosviluppo, arretratezza e progresso – da un punto di vista socio-storico – assistiamo all’affermarsi a livello culturale di una concezione economica che aveva avuto già inizio precedentemente, ma non era ancora ampiamente accettata. Una gestione economica basata sulla sussistenza, cioè produrre, lavorare, commercializzare per approvvigionarsi non viene più considerata un’azione economica, ma uno stato di povertà. Solo ciò che viene smerciato sul mercato nazionale e internazionale, venduto con una valuta che può essere cambiata in dollari e solo ciò che è basato sulla razionalizzazione tecnica, cioè un elevato numero di pezzi e un notevole profitto, viene considerato economia. L’ONU avvalla questa concezione restrittiva dell’economia stabilendo negli anni ‘70 del secolo scorso, in base al PIL e al guadagno medio degli abitanti, se un paese è ricco o povero, quanto sia sviluppato o sottosviluppato. Si misura quindi il flusso di denaro degli acquisti e delle vendite, calcolati in dollari, e non l’approvvigionamento effettivo, né la sua qualità. “Le persone che, invece di consumare “Junkfood” (cibo-spazzatura) industriale prodotto e distribuito in base a criteri commerciali, mangiano il miglio (coltivato da donne) sono considerate povere. Il business agroalimentare commercializza il Junkfood”, Vandana Shiva riassume così la realtà dei criteri di sviluppo. “Degli esseri umani vengono considerati poveri solo perché abitano in case costruite da loro stessi, con dei materiali naturali presi direttamente dalla natura circostante – bambù, argilla – invece che cemento. Li si considera poveri perché portano vestiti fatti a mano con materiali naturali e non abiti sintetici. La sussistenza definita culturalmente come povertà non è l’equivalente di una bassa qualità di vita (fisica), al contrario, l’agricoltura di sussistenza aiuta i processi della natura e dà un contributo di economia sociale. In questo modo conferisce un’alta qualità di vita – vedi la questione del diritto al cibo e all’acqua – permette un’esistenza durevole, una forte identità sociale e culturale e un attaccamento alla vita”. (Shiva 2005)

Apparentemente il discorso sulle politiche dello sviluppo sembra rivolto esclusivamente ai paesi dell’emisfero sud e alla soluzione dei loro problemi di povertà, ma anche nei paesi a nord dell’equatore ha degli effetti culturali e sociali altrettanto profondi, anche se specularmente opposti. Uno degli effetti è la cecità nei confronti dei settori economici produttori di sussistenza nello stesso emisfero settentrionale. Non si vorrebbe più aver a che fare con la produzione di sussistenza, dato che con l’avvento del discorso sullo sviluppo è già stata svalutata. Questo è il messaggio che viene dato: se vi occupate di economia di sussistenza, ovvero se non ve ne allontanate nettamente, sarete poveri quanto i poveri nel sud del mondo. Le conseguenze dell’eliminazione dell’economia di sussistenza dal concetto di economia ci colpisce con particolare violenza, perché nel vedere i risultati negativi della globalizzazione neoliberale non capiamo bene che cosa ci stia succedendo. Dato che abbiamo assimilato culturalmente i concetti di astrattezza e anonimità dei rapporti di scambio economico come soli fattori positivi che possano promettere il successo (e cioè: lo sviluppo), abbiamo accettato di porci alla massima distanza possibile dall’economia di sussistenza.

Leggiamo nei giornali o – se siamo disoccupati – viviamo in prima persona il risultato problematico della politica e delle decisioni economiche quotidiane frutto di questa ideologia, ma non ci viene il sospetto che questo possa in qualche modo aver a che fare con la distruzione della produzione di sussistenza. Leggiamo tutti i giorni che la grande, “vera” economia sta vivendo un boom, ma il numero dei disoccupati non è in calo. I nostri quotidiani ci insegnano che la Germania è campione mondiale nell’esportazione e obiettivo d’investimento per gli investitori stranieri; la Deutsche Bank e la multinazionale chimica BASF nella primavera del 2005 annunciavano guadagni da record, e nello stesso tempo comunicavano l’intenzione di sopprimere alcune migliaia di posti di lavoro. Si tratta di quella primavera in cui lo smantellamento delle prestazioni sociali con le cosiddette leggi Hartz IV cominciava a fare effetto con trasferimenti coatti, lavori imposti pagati malissimo e proposte di “comunità di aiuto reciproco”. La gente si ricorda bene dei discorsi tesi a legittimare questo tipo di politica sociale: avrebbe migliorato la compatibilità della produzione tedesca con l’economia globale, i costi salariali aggiuntivi erano troppo alti e troppa gente si riposava sull’amaca dello stato sociale. Per quanto riguarda l’economia locale e regionale la camera dell’artigianato della Westafalia Orientale e della provincia di Lippe (OWL) nel Bielefeld comunicava in un inserto del 14 luglio 2005: “L’artigianato nella nostra regione registra dal 2000 una diminuzione degli utili e la perdita di 40.000 posti di lavoro in soli cinque anni, a livello nazionale sono un milione ..” (NW 14/07/2005).

Adesso anche noi in Germania, in quel nord considerato così ricco, siamo colpiti da fenomeni di impoverimento e più precisamente da quei tipi di povertà dai quali pensavamo di essere al riparo, dato che abbiamo sempre seguito pedissequamente la religione dell’ideologia dello sviluppo. Gli individui, i gruppi, i sindacati, le comunità, i partiti sentono di essere esposti e impotenti nei confronti del grande capitale internazionale e dei datori di lavoro (chiunque essi siano). Soprattutto ci si sente presi negli ingranaggi di un tipo di economia che lega l’esistenza del singolo a denaro anonimo e a flussi astratti di merce – e giustamente. Malgrado ciò, la maggioranza non ha altre soluzioni che di esporsi ulteriormente, di chiedere o addirittura (stupidamente) di pretendere la grazia. Questa concezione di economia che non comprende la sussistenza e gli esseri umani vivi e la politica economica che ne consegue, ci portano dentro questa palude di problemi e bloccano la fantasia nella ricerca di alternative.

A proposito del rapporto tra autarchia e produzione di sussistenza

Finora, parlando di sussistenza ho evitato volutamente il termine “autarchia”, dato che spesso vengono erroneamente associati ad essa non solo scarsità e sottosviluppo, ma anche una forma di autarchia preistorica. Affermare che perfino nel passato essa non comportava relazioni reciproche fa parte dell’ideologia che vuole distaccare l’economia di sussistenza dall’economia “vera e propria” e del mito – che ne scaturisce – della scomparsa della produzione di sussistenza. L’idea fa parte della dottrina secondo cui – a quanto pare logicamente – nel corso dello sviluppo verso il progresso può esistere solo il mercato capitalistico, che mira all’incremento del profitto e che trova il suo culmine nella famosa frase economico-dittatoriale sulla globalizzazione neoliberale: “There is no alternative” (Margareth Thatcher). Ma per millenni sono esistiti dei mercati, ed esistono tutt’ora, che servono allo scambio di prodotti di sussistenza finalizzato a una forma di approvvigionamento, all’interno dei quali ci sono compiti suddivisi. L’obiettivo delle persone coinvolte non è il guadagno, oppure sì, il guadagno, ma non l’ottimizzazione dell’incasso o il profitto, ma il mantenimento delle entrate e della sussistenza.

La base dell’economia di sussistenza è l’auto-approvvigionamento, inteso non come approvvigionamento dell’individuo isolato, egocentrico – questo sarebbe un modo di vedere molto poco storico, eurocentrico e “US-centrico”.“Auto-approvvigionamento” vuol dire che concedo agli altri ciò che serve per il loro auto-approvvigionamento, e viceversa. Si tratta di un sistema vecchio come il mondo, già analizzato sotto il nome di “moral economy” (Thompson 1971; Scott 1977; Mies 1994). In altri termini, questa concezione di approvvigionamento comprende la reciprocità, quindi la disponibilità a lavorare insieme e non gli uni contro gli altri. E’ un’idea che non è scomparsa con l’avvento della modernità, ma che è stata repressa assieme al segmento dell’economia di sussistenza e resa invisibile nel discorso pubblico. Ma così come la produzione di sussistenza non può scomparire, non viene meno il suo principio. Oppure, detto in termini diversi: fino a quando produrremo sussistenza esisterà anche il concetto di reciprocità e collaborazione. Qui ritroviamo i punti d’incontro empiricamente dimostrabili per un orientamento diverso da quello dell’odierna economia globalizzata dei nostri paesi.

La sussistenza quindi non è solo ciò che serve per una buona vita senza carenze materiali, ma è anche un modo di pensare. Ed è proprio questa mentalità che è stata scalzata dalla propaganda sulle politiche di sviluppo e che il neoliberalismo intende eliminare. Nella nostra epoca – per quanto riguarda la concezione dell’attività economica culturalmente condivisa – ci troviamo di fronte a un cambio di paradigma che avrà degli effetti sulla storia dell’uomo, forse il processo è già in gran parte iniziato, e prevede un allontanamento dal concetto dell’essere economicamente attivo in un contesto più o meno umano, in direzione di un’economia intesa come attività aggressiva e conquistatrice, meccanica e priva di emozioni, in altri termini un’economia concorrenziale.

Per una concezione storica della sussistenza e dell’ auto-approvvigionamento

E’ chiaro che l’economia di sussistenza del cinquecento europeo è diversa da quella del XXI secolo, e oggi nelle montagne del Chiapas messicano si presenta in maniera diversa da quella del capoluogo Tuxtla Gutierrez, e quest’ultima da quella di Città del Messico, la capitale, con i suoi 22 o 25 milioni di abitanti, o a Bielefeld, cosiddetta metropoli della Vestafalia orientale, con i suoi 300.000 abitanti. A livello storico, l’economia di sussistenza si è andata trasformando da un modo di produzione finalizzato all’auto-approvvigionamento che incide su tutta la società con i suoi processi di scambio ed i suoi mercati, detti appunto mercati di economia di sussistenza, in un’economia quotidiana che viene sempre di più conquistata o, in termini più esatti, colonizzata dall’economia capitalistico-commerciale, nella sua qualità di sistema produttivo che determina la società. Sempre più attività e prodotti di sussistenza vengono trasformati in merce e sottoposti a una commercializzazione finalizzata al profitto. Perfino la vita di società viene reinterpretata come evento “fun” (Disneyland) e la passeggiata nel bosco diventa un percorso attraverso il parco boschivo, con animazione, e chiaramente soggetta al pagamento di un biglietto d’ingresso.

Così come è sbagliato suddividere l’economia dei paesi “in via di sviluppo” in settori tradizionali e moderni, ha poco senso paragonare l’economia dei moderni contadini indiani del Chapas con quella dei paesini di campagna dell’Europa del cinquecento. I piccoli coltivatori del Chapas – che producono il caffè che finisce nelle tazze di Bielefeld – vengono sorvolati tutti i giorni dagli elicotteri dell’esercito federale messicano, in una guerra a bassa intensità, e contestualmente riescono a produrre i loro alimenti di base, granturco e fagioli, in un regime di autarchia. La produzione di sussistenza è determinante per la loro economia, ma nello stesso tempo il loro modo di produrre è moderno come l’agire della donna di Bielefeld che acquista il suo caffè in un negozio equo-solidale, lo porta a casa, lo prepara e lo versa ai suoi ospiti; del resto anche questa è un’attività di auto-approvvigionamento.

Da queste riflessioni si evince come, in tempi di globalizzazione economica, la produzione di sussistenza del Chapas vada analizzata in modo del tutto diverso da quello che la vede parte integrante di un modo di produzione che coinvolge tutta la società nell’economia di sussistenza. Lo stesso vale per gli abitanti di Tuxtla Gutierrez, di Città del Messico o di Bielefeld, anche se tutte queste persone si occupano e lavorano per la loro sussistenza. Conviene quindi distinguere tra economia, in quanto modo di produzione dominante in una società, e produzione di sussistenza, come uno degli aspetti di un modo di produzione ampiamente commercializzato. La seconda non scompare con il soffocamento della prima, ma anche se cambia il suo carattere, rimane necessaria: è e resta quella base dei rapporti di scambio tra gli esseri umani, che anche il “brainwashington” imperialista neoliberale non può fare scomparire così facilmente.

Si potrebbe affermare con sicurezza che ogni tipo di produzione e di scambio ha l’obiettivo di garantire la sussistenza umana. Non ha molto senso però, perché si tratta proprio di vedere la differenza basilare, ma completamente ignorata, con l’intrinseca teoria economica dominante, differenza, che è stata sempre più occultata, tra un approvvigionamento inteso solo in termini quantitativi e uno qualitativo, umano ed etico perché rispettoso degli uomini e del mondo che ci circonda. Il concetto di approvvigionamento esclusivamente quantitativo tiene conto del postulato economico di base della ristrettezza: l’arte di produrre e distribuire consisterebbe nel rispondere alle esigenze illimitate degli uomini con mezzi sempre troppo scarsi. Un concetto economico orientato verso un approvvigionamento di sussistenza, al contrario, accoglie con gratitudine la grande quantità di doni e condizioni che la natura ci riserva, ne tiene conto e non considera gli uomini come esseri scriteriati, ma del tutto capaci di provare soddisfazione.

Nello stesso tempo, questo concetto di sussistenza dimostra come e perché nasca e perduri l’approvvigionamento etico-umano, cioè per mezzo dell’auto-approvvigionamento che costituisce la “messa a terra“ e l’ancoraggio alla natura del concetto di sussistenza – alla natura umana interiore, ma anche alla natura che ci circonda. Tutto questo contrasta con le affermazioni idealistiche, tanto pretenziose quanto prive di contenuto, sulla responsabilità etica globale, che in quanto politiche producono perle stilistiche come il mercanteggiare (delle indulgenze) per le quantità di biossido di carbonio che ogni nazione può emettere. Produrre, scambiare e approvvigionarsi nello spirito di sussistenza non porterebbe alla strana idea di contabilizzare in questo modo l’inquinamento del pianeta, addirittura legittimandolo con la teoria della scarsità, avvalendosi del presupposto concettuale secondo cui l’approvvigionamento dell’umanità intera di beni considerati necessari costringa in modo pragmatico a questo assurdo compromesso. L’economia di sussistenza ha le sue basi, locali e regionali, nelle persone di un territorio, nella sua società e nel suo paesaggio e contiene quegli strumenti di misura che possono opporsi all’idea smisurata di voler coinvolgere tutto il globo in un calcolo utilitaristico.

Sussistenza ed economia locale. L’esempio della Warburger Börde

Dal 1999 al 2002, con le mie colleghe Andrea Baier e Brigitte Holzer, ho esaminato gli “elementi di un’economia regionale nella società rurale” nella pianura di Warburg, Vestfalia orientale (Baier/Bennholdt-Thomsen/Holzer 2005). Ci siamo concentrate sull’obiettivo di indicare dei punti di partenza per un tipo di economia capace di frenare l’eccesso, che non segua la moda dell’anonimità e dell’astrattezza dei rapporti di scambio dovute alla globalizzazione del mercato. Abbiamo esaminato in modo empirico la tesi secondo la quale i rapporti di scambio locali e regionali, cioè una circolazione di produzione, lavorazione, compravendita e consumo in una regione, si svolgono secondo le regole dell’economia della sussistenza e le danno respiro.

Abbiamo accuratamente scelto una regione che non si presta alla messa in scena nostalgica e turistica di un’economia di sussistenza del passato, come potrebbe succedere con facilità, e in effetti avviene, per molti bei paesaggi montani il cui suolo dà scarso rendimento: le proposte circa le moderne forme di economia regionale girano spesso attorno a zone con queste caratteristiche e si focalizzano sul turismo. Il suolo fertile della pianura al contrario invita proprio a un’agricoltura industriale su grande scala per il mercato mondiale, e questo si vede subito in un territorio poco attraente per i turisti. Le ripetute ricomposizioni fondiarie hanno riassettato il territorio drenando i campi e rendendo le loro forme più regolari, dividendoli in rettangoli squadrati, adatti per un’agricoltura industriale e meccanizzata. Nonostante ciò, esistono altri settori del kosmos economico regionale in cui l’orientamento all’economia di sussistenza è chiaramente percettibile, che fanno da contrappeso al trend della globalizzazione. Come ho già detto il nostro interesse – in opposizione rispetto allo spirito del tempo – si focalizzava su quegli aspetti che si oppongono alla sensazione di impotenza economica del “there is no alternative”, e proprio all’interno di quelle condizioni che apparentemente non offrono spazio alle controtendenze.

Abbiamo voluto mettere in evidenza il ricco tesoro di esperienze, saperi e forme funzionanti di produzione e scambi tra esseri umani di questi territori, ma anche per quanto riguarda la città (Bennholdt-Thomsen 2003; p. 242 e seg.), un tesoro che comunque ci appartiene ancora, in contrasto con la tendenza bellica del “lupo magia lupo”. In altri termini, c’è molto per difenderci dai meccanismi della globalizzazione economica neoliberista che distruggono la società e fanno nascere conflitti, portando l’azione su di un livello che nella società civile è alla nostra portata.

Grazie alla buona qualità del suolo e ai raccolti sicuri nella pianura di Warburg si sono mantenute più strutture patrimoniali e sociali contadine rispetto alla pianura settentrionale che circonda Vechta e Cloppenburg, nella Bassa Sassonia. Lì nel nord, un numero maggiore di piccole e medie aziende agricole hanno dovuto chiudere o allargarsi a spese degli altri e specializzarsi come allevamenti zootecnici industriali (polli e maiali); questo sviluppo veniva anche favorito dalla vicinanza dei porti di arrivo del mangime, specialmente della soia che proveniva d’oltremare. Anche nella pianura di Warburg negli anni ‘70 si era dato il via alla produzione intensiva di allevamenti destinata al grande mercato nazionale e con contatti con il mercato mondiale, che si era allargata sempre di più dopo il calo dei prezzi dei cereali dovuto alle politiche dell’UE. Era sicuramente più logico dare i cereali in pasto agli animali, piuttosto che venderli in perdita. Ma anche i cereali per la produzione del pane e dell’orzo da birra non vengono più venduti, come del resto la barbabietola da zucchero, che per molto tempo aveva garantito anche alla piccola fattoria un’entrata sicura. La sua produzione, con la nuova disposizione UE sul mercato dello zucchero, sarà in pericolo (a partire dal 2005/06).

Ai margini della pianura di Warburg – che con il suo diametro di circa 15 km è abbastanza piccola – continuano ad esserci prati e pascoli per il bestiame da latte che le conferiscono, almeno dal punto di vista paesaggistico, un aspetto più rurale che industriale. I bovini però, se sono ancora da latte, vengono tenuti in stalle sempre più grandi e nutriti con granturco stivato in silos e cereali, o vengono allevati tori con ingrasso intensivo.

In gran misura prevale l’allevamento dei maiali. E’ particolarmente facile da organizzare a livello industriale. Le singole fasi d’età nell’allevamento dei suini avvengono separatamente in aziende specializzate. L’allevamento A si occupa della “produzione” di scrofe madri, l’azienda B, prendendo le scrofe da A, di quella dei porcellini, nell’impresa C i maialini vengono allevati fino a quando non sono pronti per l’ingrassamento nell’azienda D. Gli animali vengono consegnati al macello in gruppi da 60 fino a 100 “unità”, puntualmente, in modo che l’invio alle fabbriche di carne avvenga in modo programmato. La prima tappa dei numerosi termini di consegna avviene in stalla al momento della “produzione porcelli”. Le scrofe (a volte, anche se è raro, dopo essere state preparate per 4 mesi con ormoni all’inseminazione artificiale) subiscono un trattamento ormonale in modo tale che figlino al momento previsto. Dato che, malgrado tutte le misure di razionalizzazione, l’allevamento di scrofe per la “produzione porcellini” richiede moltissimo lavoro e, se il numero delle scrofe supera le 300 unità, in un’azienda a conduzione familiare non può più essere effettuato da un solo lavoratore a tempo pieno, per evitare di assumere personale, nella pianura di Warburg si trovano raramente allevamenti che vadano oltre questo numero. Di conseguenza le forniture più importanti di porcelli destinati all’ingrasso provengono dai Paesi Bassi, dalla Germania Settentrionale o dalla Danimarca.

Per il momento nella pianura di Warburg, le aziende agricole a conduzione familiare sono ancora in maggioranza. Il più delle volte l’agricoltore è il lavoratore principale, assistito da un parente (un anziano o la consorte). Inoltre molte mogli lavorano a part-time fuori, spesso nel settore dei lavori a basso reddito, ma nelle vicinanze. Soprattutto negli allevamenti di suini il contributo lavorativo della moglie dell’agricoltore non è più necessario. Migliaia di animali possono essere gestiti da una singola persona, in stalle con pavimentazione in cemento con fenditura ed erogazione del mangime gestita elettronicamente. Così nasce la “fattoria moderna” con la stalla per l’ingrassamento intensivo e l’abitazione annessa, gestita dalla casalinga rurale e non più dalla contadina.

Malgrado e in contemporanea con l’agricoltura industrializzata, nonostante il fatto che i piccoli negozi abbiano dovuto lasciare il posto ai supermercati e ai centri commerciali, e benché l’artigianato locale si sia ridimensionato notevolmente – non dobbiamo dimenticare che l’agricoltura di pochi decenni fa aveva bisogno dell’artigianato: del carraio, del fabbro (diventato poi meccanico), del falegname/carpentiere, del selsoprattutto malgrado la politica agraria del “crescere o cedere” che è partita negli anni ’60, nella pianura di Warburg esistono tuttora molti settori di produzione a livello locale. Il meccanismo riproduttivo dei rapporti economici di scambio è di natura sociale o, come abbiamo detto in precedenza, di natura inter-umana. In termini ancora diversi, nella nostra ricerca abbiamo puntato lo sguardo innanzitutto sul lato umano dei rapporti di scambio, e in secondo luogo su quello del guadagno economico. Abbiamo potuto così notare che l’orientamento all’economia di sussistenza è nettamente più presente di quanto alcuni suoi protagonisti pensino e che sia un pilastro della produzione locale e regionale.

L’orientamento alla sussistenza e l’agricoltura

Le particolari condizioni dell’agricoltura rispetto a quelle dell’industria fanno comunque sì che l’orientamento di sussistenza persista naturalmente di più in questo settore rispetto ad altri, e conservi un proprio primato, proprio perché l’agricoltura non può mai essere completamente separata dall’approvvigionamento immediato, e quindi nemmeno dall’auto-approvvigionamento. Il suolo inoltre non può essere trasportato altrove. Non è possibile chiudere un’azienda agricola e riaprirla in un altro luogo, come si fa, ad esempio, con una fabbrica che produce per il mercato mondiale e che – sempre alla ricerca di forza lavoro più economica – viene fatta migrare in un altro paese e in una zona economica particolare. L’agricoltura è per principio legata a un luogo e così anche gli agricoltori, e da generazioni.

La fattoria è qualcosa di più che un posto di lavoro e la sua cultura lavorativa ed economica si distingue fondamentalmente sia dal lavoro retribuito che dal capitale imprenditoriale. La generazione attualmente attiva nel settore sente dei dovere nei confronti di quelle passate e future, ma anche rispetto al suolo che garantisce la sopravvivenza. Di conseguenza le fattorie seguono la logica della sussistenza e non quella del profitto: si tratta di mantenere l’attività, di tramandarla e di produrre reddito e sussistenza senza mettere in pericolo l’esistenza della fattoria. La politica del “crescere o cedere” attuata nella RFT mirava proprio alla distruzione di questa logica e di questa cultura, e ha avuto un notevole successo, sebbene non completo.

“Crescere o cedere”, lo slogan coniato dal ministro liberal-democratico per le politiche agricole Joseph Ertl (1969 – 83) significa che la singola fattoria o doveva diventare più grande o era condannata a chiudere i suoi battenti, e quindi che gli uni devono crescere a spese degli altri. Con questo l’economia di concorrenza veniva forzata, cioè la cultura del margine di guadagno prendeva il posto della cultura contadina della persistenza con i suoi principi di reciprocità, della ‘moral economy’, dell’auto-approvvigionamento e degli scambi a livello locale e regionale.

Una tradizione millenaria non può essere distrutta così facilmente. Da un lato ci sono i contadini che resistono nelle fattorie con una tenacia che non ci si aspettava da loro, viste tutte le difficoltà creategli intorno. Continuano a gestire la loro azienda come una piccola o media impresa, che costituisce la loro fonte principale di guadagno, senza specializzarsi nelle monoculture, quindi a produzione mista, a cura del contadino e della contadina. In casi come questi, le sovvenzioni calcolate sulla base della superficie, cioè il sussidio per prodotti coltivati per ettaro, avvantaggiavano enormemente i grandi a discapito dei piccoli. Questa prassi sussidiaria dovrebbe averle distrutte e costrette all’abbandono già da un pezzo. Altre volte le fattorie vengono gestite dal titolare come attività secondaria, in aggiunta a un lavoro retribuito. E’ molto raro che sia la titolare a farsi carico del lavoro contadino oltre a quello salariato, dato che nella regione, come del resto in tutta la Germania del nord, le fattorie vengono tramandate da padre a figlio (maschio). Ma se è l’uomo a eseguire un secondo lavoro, significa spesso che è la donna (partner, madre, zia) a gestire l’azienda agricola, come lavoro principale. Troviamo ancora delle contadine in aziende di questo tipo, piccole e miste, gestite come attività principale o secondaria. Oppure, da un altro punto di vista, è nelle fattorie maggiormente orientate verso una produzione sussistenziale che la professione di agricoltrice esiste ancora, e vice versa sostiene questa scelta.

D’altronde la tradizione contadina sopravvive sotto forma di tradizione di famiglia e perfino laddove è avvenuto il passaggio alla specializzazione monoculturale e industriale del “crescere o cedere”, come ad esempio nell’allevamento di suini, ciò impedisce la nascita di vere e proprie fabbriche agrarie. Tramite il loro giornale di categoria, i consulenti agroeconomici, negli ultimi anni, si sono impegnati molto per rendere plausibile all’“imprenditore” agricolo – tale è diventato il contadino nel settimanale – l’idea di assumere operai e impiegati, oltre ai parenti lavoratori: nelle “imprese del futuro” – altro neologismo delle camere dell’agricoltura – le prossime tappe della crescita non saranno possibili per l’impresa a conduzione famigliare. Piuttosto che indebitarsi ulteriormente, cioè richiedere altri crediti, per aprire ad esempio una nuova stalla per l’ingrasso dei suini, molti agricoltori e agricoltrici preferiscono abbandonare il lavoro agricolo o farlo morire insieme alla generazione che ancora lo pratica. Sembra all’apparenza che si stia verificando un paradosso: spesso sono le aziende finora ricche e di successo – con forte crescita – che vengono chiuse. In molti devono abbandonare perché non riescono più a pagare le rate e gli interessi debitori, andando in fallimento. Per gli altri, che si trovano in situazioni simili, sono un monito e anche la conferma del fatto che seguire la logica del profitto vuol dire rischiare l’azienda, quell’azienda tramandata dagli antenati che doveva essere lasciata ai figli. Fino a questa soglia, che in economia agraria viene chiamata soglia di crescita, anche le aziende gestite in modo industriale rimangono nella loro concezione fattorie. Infatti, si distinguono da una vera impresa industriale, finalizzata a una ottimizzazione del profitto – come una vera fabbrica agraria – per il fatto che i guadagni non vengono investiti per aumentare la produzione, o in un fondo o in qualsiasi altra cosa che permetta la speculazione, ma nell’azienda. In questo modo il lavoro viene razionalizzato attraverso la meccanica e la specializzazione, come in una qualsiasi impresa industriale, ma non per risparmiare posti di lavoro, bensì per poter mantenere il proprio posto di lavoro, cioè per poter continuare a lavorare, e produrre di più per ottenere il reddito necessario. Il risultato è che se facciamo un confronto con il ceto medio artigianale, l’agricoltura si distingue per le alte quote di capitale proprio e a bassa redditività. Nel 2001, l’impiego di capitale per posto di lavoro nel settore agricolo era mediamente di 264.000 Euro, mentre negli altri settori raggiungeva circa 130.000 Euro, quindi la metà (Röckl, LebendigeErde 5/2004).

L’orientamento verso la sussistenza nella società e nell’economia rurale

L’orientamento delle persone impiegate in agricoltura nella pianura di Warburg è, oggi come un tempo, di tipo rurale, non solo nella gestione della loro fattoria, ma anche per quanto riguarda la struttura sociale rurale della regione. Oggi come allora l’intera società rurale, ivi incluso coloro che non lavorano direttamente la terra, che nel frattempo sono diventati la maggioranza della popolazione, è profondamente influenzata dai metodi produttivi rurali e dalla cultura contadina. Di conseguenza, la vita sociale locale si contraddistingue per un impegno finalizzato a una notevole socialità e a un elevato grado di reciprocità.

Nelle località della pianura ci sono più membri di associazioni che abitanti, poiché ogni abitante, sia uomo che donna, di solito appartiene contemporaneamente a più associazioni. Gli uomini sono per così dire “soci per nascita” dell’associazione del tiro a segno, cui appartengono nella misura dell’85/90%; seguono i vigili del fuoco, l’associazione sportiva e in particolare quella di calcio, l’associazione musicale e quella di canto. Esistono poi tutta una serie di altre associazioni, da quella dei pescatori, degli agricoltori, fino all’associazione Kolping. Le donne sono, se cattoliche e si tratta della maggioranza, “socie per nascita” dell’associazione delle donne e madri cattoliche, dell’unione delle agricoltrici, anche se non si occupano direttamente di agricoltura, dell’associazione del tiro a segno, di quella musicale, del coro della chiesa, le giovani fanno parte del gruppo di jazz dance e di altre associazioni ancora. Tra gli ovvi compiti di tutte le associazioni citate figurano prestazioni per l’intera comunità rurale; l’associazione di pesca, per esempio, pulisce a titolo onorifico gli stagni o impedisce l’allevamento di pesci nei ruscelli, l’associazione musicale suona a tutti gli eventi mondani o religiosi, come nei tre interi giorni dedicati alle feste popolari, o il gruppo di jazz dance presenta un pezzo al caffé degli anziani, evento organizzato dalle imprenditrici agricole.

Lo sforzo teso alla reciprocità e all’essere insieme trova la sua base materiale sia nell’economia formale che in quella informale. Per quanto riguarda l’economia formale, l’abitante del paese al giorno d’oggi non evita più il sarto perché questi non veda che ha un abito nuovo, né copre vergognosamente gli acquisti fatti al discount se passa davanti al negozietto di generi alimentari, perché non ci sono più sarti e i commercianti al dettaglio sono rimasti estremamente in pochi, tuttavia i lavori da effettuarsi vengono assegnati in loco a falegnami/carpentieri, muratori, idraulici, sarte locali e al servizio a domicilio della macelleria o alle attività di cui ci sia offerta artigianale locale. La ragione di tale comportamento è insita in un sentimento più o meno diffuso di dipendenza reciproca, che è rimasto dall’epoca della reale reciprocità nelle relazioni di scambio, ad esempio nell’agricoltura e nell’artigianato, che ebbero un loro valore fino agli anni ‘70 (Müller 1998). Tutto questo è ancora riconosciuto almeno a livello sentimentale nelle località della pianura di Warburg e può fungere da punto di partenza per una ricostruzione consapevole o anche per una reinvenzione consapevole dell’economia locale.

Perché ciò avvenga occorre forse solo un po’ d’iniziativa, come ad esempio in Inghilterra con lo studio “Ghost Town Britain” (n.d.t., la Britannia delle città fantasma), che pare abbia messo in moto qualcosa. Questo studio ha tradotto in cifre quello che in realtà era già noto a tutti, cioè che la struttura commerciale delle cittadine rurali si sta sgretolando, non ci sono più uffici postali, filiali di banche e farmacie e stanno scomparendo i negozi al dettaglio di generi alimentari. Tuttavia la ricerca ha destato scalpore in tutta l’Inghilterra e ha risvegliato la volontà di opporsi a tale tendenza (New economics foundation 2003). Anche nella pianura di Warburg ci sono già segni che vanno in una direzione simile. L’iniziativa popolare di qualche tempo fa chiamata “Lebenswertes Bördeland und Diemeltal” [n.d.t., terre di pianura e Diemeltal in cui valga la pena vivere] nata contro la creazione di una discarica di rifiuti domestici e tossici nel bel mezzo delle fertili terre della pianura, si è consolidata con la nascita di un osservatorio sul paesaggio. Da qui parte, nei paesi della zona, l’iniziativa di ideare misure di autosostegno per colmare il vuoto dei piccoli centri. Da qui è anche partita l’iniziativa di istituire un “giorno delle regioni” in tutta la Germania, tramite cui promuovere l’economia regionale.

Base importante per l’orientamento alla cooperazione locale è l’auto-approvvigionamento. “Chi non ha del bestiame o non si fa il pane in casa, non ha neanche bisogno di relazioni” dice una signora dell’associazione del tiro a segno. Lavora come consulente farmaceutica, viaggia spesso per lavoro, ma cura l’orto, le sue galline, si fa il pane in casa e si dedica alle relazioni sociali. Con il suo motto fa intendere chiaramente che i rapporti tra le persone necessitano di un “collante” materiale. La paglia per le galline la riceve da un amico membro dell’associazione, la farina da un altro, e se nell’orto della vicina c’è già della bella insalata che nel suo ancora manca, va lì a prendersene un caspo. Nelle località della pianura, sono molte le donne che hanno un orto o un giardino, a dispetto di frasi ricorrenti come “da Aldi [n.d.t., nota catena di discount in Germania] costa meno” o “ormai puoi acquistare le cipolle direttamente in farmacia”. Alla fine non esiste casa senza orto o giardino di cui non si voglia occupare anche qualche uomo, soprattutto a pagamento. Da questi giardini provengono anche i fiori per la decorazione dell’altare della chiesa che la sagrestana può liberamente prendere, o il bosso per le ghirlande delle agricoltrici di tutto il paese, o l’assenzio puro per il Kräuterbund, un mazzo di erbe aromatiche che viene raccolto per la tipica usanza locale della benedizione delle erbe. Per non parlare poi del fatto che numerosi nuclei familiari si riforniscono lì di verdura, insalata, frutta e fiori per il loro quasi totale fabbisogno, e “senza pesticidi”, aggiungono immediatamente i più.

La produzione di sussistenza è motivo di generosi scambi, per così dire di regali su reciprocità (Vaughan 2002), ma è anche alla base dei pagamenti, anche se in questo caso il rapporto con il denaro è ben altro rispetto a quello astratto puramente contabile. Quando infatti i servizi derivanti dall’aiuto dei vicini o dei parenti non possono essere ricambiati in misura equivalente si offre in aggiunta del denaro, la cui quantità può variare in base allo stato del “conto di reciprocità”. Poiché il denaro è sempre in movimento, esiste il rischio che nella percezione comune questo tipo di lavoro goda della brutta reputazione di lavoro nero. Ma in realtà c’è una grossa differenza se si parla di lavoro collocabile nell’intreccio delle relazioni locali o se si parla, ad esempio, di un grande cantiere che sfrutta dei muratori polacchi come pura forza lavoro a basso costo, senza tasse e contributi sociali. Ciò che fa la differenza fondamentale è la relazione interpersonale di reciprocità che esiste in queste zone e il diverso rapporto con il denaro, in quanto componenti di un’economia di approvvigionamento locale. Il denaro di per sé, non porta a un’economia alienante e basata sullo sfruttamento, né dovrebbe essere visto come linea di demarcazione decisiva tra produzione di sussistenza e produzione capitalistica. Anzi, è proprio il tipo diverso di rapporto con il mezzo di scambio denaro nell’approvvigionamento di sussistenza e le molteplici relazioni di scambio che abbiamo trovato nella pianura di Warburg, nelle quali ci si rapporta con il denaro in modo flessibile e all’interno della sfera delle relazioni umane, che ci fanno vedere questa pratica come possibile punto di partenza per la creazione di un’economia regionale più umana di quanto non lo sia quella globalizzata. Il problema non è il denaro, ma il modo in cui ci si relaziona ad esso.

In questo modo abbiamo anche potuto stabilire che l’economia informale, così come può essere definita a grandi linee l’economia di approvvigionamento locale orientata alla sussistenza, contribuisce al consolidamento delle relazioni economiche su scala locale e regionale invece che indebolirle, come talvolta viene erroneamente sostenuto. Un buon esempio è dato dalla macellazione fatta in casa, attività che si collocata nella transizione dai rapporti di lavoro e di mercato informali a quelli formali. Quella del macellatore “casalingo” è una figura professionale autonoma, indipendente e tradizionale. Una volta i macellatori “casalinghi” lavoravano in estate, di solito come muratori, e in inverno ammazzavano il maiale nelle fattorie e lo insaccavano per il fabbisogno della famiglia. Poi passavano i bambini del vicinato e gli si regalava carne e brodo, a parenti e amici si portavano dei pezzi scelti e tutti lavoravano in allegria insieme al macellatore. Ancora oggi si è mantenuto il carattere festoso della macellazione casalinga. Al macellatore viene servito un buon pasto, a cui si aggiunge qualche bicchierino di acquavite e viene pagato per il suo lavoro. Non solo possiede una licenza, ma persino la sua casa, dove ha allestito un locale per la preparazione delle salsicce, è dotata di licenza per la macellazione in loco, dal momento che sempre meno case dispongono di un locale del genere. Nei paesi si vigila gelosamente su questi antichi diritti che superano gli abituali regolamenti professionali e corporativi delle macellerie, poiché permettono a ogni casa contadina di rifornirsi con le proprie salsicce.

Per questo si compra un maiale da una fattoria vicina, allevato per lo più sulla paglia e fatto ingrassare più a lungo del solito, affinché l’amata salsiccia essicata all’aria (Mettwurst) tipica di questa regione venga buona come sempre. Con la cooperazione di tutti i membri della famiglia, la carne viene speziata secondo il proprio gusto nei locali a ciò preposti e infine viene appesa in casa, tra le provviste della famiglia. Anche se sarebbe più semplice ed economico comprare le salsicce in macelleria, la maggior parte delle famiglie che vivono in queste campagne si riforniscono di salsicce e prosciutti propri grazie alla macellazione “casalinga”, tanto che si potrebbe vedere nel macellatore casalingo un fastidioso concorrente del macellaio. Nella realtà succede proprio il contrario. Nella pianura di Warburg ci sono essenzialmente ancora più macellerie artigianali che in città, perché possono contare su una clientela fissa, che dà per scontato di trovare nella propria macelleria quella bontà e qualità a cui è abituata a casa e con il proprio macellatore di fiducia, e che quindi non compra la carne dal banco dei surgelati del supermercato o le confezioni di salsicce da Aldi.

In prospettiva: l’importanza della produzione di sussistenza per la resistenza alla globalizzazione economica

A livello locale, la transizione dall’auto-approvvigionamento dell’economia casa-fattoria e dall’aiuto informale tra vicini e parenti verso l’economia formale è in continuo movimento. Ed è un bene che sia così. Questo background sempre presente di esperienze quotidiane collega l’economia formale all’utile, a ciò che serve per vivere bene, in contrapposizione al superfluo del consumismo, che fa quotidianamente da corollario alla caccia al profitto economico. L’orientamento alla sussistenza dunque, così come l’abbiamo descritto per l’economia rurale della pianura di Warburg e così come agisce generalmente nei circuiti economici locali e regionali, rappresenta il contrappeso alla globalizzazione economica.

La leva più efficace, grazie alla quale la prassi economica della globalizzazione spezza molti legami sociali ed economici consolidati, sia a livello locale, regionale che nazionale o continentale, è data dall’astrattezza del denaro e l’anonimità della merce. Più esattamente, la leva consiste nel fatto che entrambi questi fenomeni di norma non vengono neanche più percepiti, come se appartenessero inevitabilmente a ciò che l’economia rappresenta. Vengono assimilati alla pratica quotidiana tramite l’atto dell’acquisto e della vendita, anche della merce forza-lavoro, creando così una mentalità in cui le attività economiche non sembrano più aver nulla a che fare con i processi sociali basati sul rapporto tra le persone. L’unico contrappeso reale, materialmente tangibile, è la produzione di sussistenza, che per l’appunto non può essere fatta sparire completamente, e ciò grazie alla natura umana. In questo modo, la quotidianità e l’economia del mondo vivente ci forniscono i punti di partenza per una prassi economica e sociale diversa, ma solo nella misura in cui la percepiamo consapevolmente come tale. A ciò vogliamo contribuire con i trattati scientifici sulla sussistenza. In altre parole, interpretiamo l’approccio teorico alla sussistenza esplicitamente come approccio politico, e precisamente in senso politico-sociale-civile.

Ma il monopolio culturale e mentale dell’economia “salario-merce” è giunto a uno stadio molto avanzato, tanto che specialmente noi, gente del nord, ancora facciamo fatica a riconoscere quando ci viene sottratta la nostra comune base di sussistenza, come ad esempio l’acqua o l’aria, poiché diamo per scontato possiamo semplicemente acquistarla. La stessa cecità regna nei confronti della privatizzazione, della prevenzione e della sua commercializzazione finalizzata a un profitto economico crescente. Il processo di sfruttamento che si realizza sulla scorta della globalizzazione economica consiste proprio nel fatto che sempre più ambiti dell’approvvigionamento di sussistenza individuale, ma anche collettiva, vengono commercializzati, privatizzati e liberalizzati. Se da un lato si tratta della prosecuzione del noto meccanismo di sfruttamento capitalistico, dall’altro esso acquista una nuova e potenziata dimensione attraverso il trasferimento o l’ampliamento dell’industrializzazione dalla meccanica fisica alla comunicazione e, di conseguenza, agli ambiti direttamente legati ai rapporti umani. Le relazioni tra le persone vengono meccanizzate e il meccanismo che le sottende è il rapporto capitalistico tra le merci, tutto viene comprato o venduto, ogni impulso vitale, per trarne profitto (Genth 2002). L’auto-approvvigionamento e soprattutto i legami di auto-approvvigionamento dell’economia domestica, dell’economia della fattoria, nonché la cura dei bambini finiscono sempre più nelle mani di gruppi industriali altamente produttivi in fatto di servizi e profitto. L’atto anonimo dell’acquisto sostituisce sempre più integralmente l’atto personalizzato dello scambio.

Negli ultimi anni, il governo tedesco fondato sulla coalizione tra SPD e Verdi ha dato una mano enorme a questo processo. Oggi, una madre single che fino a ora era vissuta di sussidio sociale o di disoccupazione, per potersi occupare dei propri figli deve fare lo stesso lavoro all’interno di una scuola materna (o asilo) per un “compenso” di 1 un euro all’ora. Trattandosi di “lavoro retribuito”, vale come lavoro. Si legittima come tale solo per il fatto che è funzionale alla creazione di profitto: anche se al momento non ancora in maniera diretta, visto che le scuole materne (o asili) non sono ancora state privatizzate, ma in ogni caso in modo tendenzialmente diretto, poiché il lavoro a 1 euro è parte del progetto con cui per la prima volta nella storia tedesca lo Stato stesso crea un settore a basso reddito quale legge. I sindacati e la Sinistra tedeschi assistono impotenti a questo fenomeno, poiché hanno perso l’occasione di concepire una prospettiva emancipatoria della propria forza di auto-approvvigionamento, o di fare propri gli approcci già presenti nel movimento femminile. Si rendono conto ora in che incubo ci troviamo se tutto, ma proprio tutto … non potrebbe, ma deve essere comprato e venduto. Le vecchie battaglie che consistevano solo ed esclusivamente nel porre sotto pressione il capitale per ridistribuire un po’ più della torta, quindi pagare salari maggiori, diventano obsolete e le vittorie raggiunte si dissolvono nell’aria.

La conoscenza e l’esperienza di come può andare diversamente se ci si difende contro l’economia globalizzata massimizzante che impone il proprio imperialismo a livello culturale e di mentalità, è parte del bagaglio di coloro che finora hanno partecipato il meno attivamente a tale economia e quindi comprendono meglio l’approvvigionamento di sussistenza, e cioè le agricoltrici e gli agricoltori, soprattutto nel sud indigeno, ma anche da noi al nord, e le donne (Bennholdt-Thomsen/ Holzer/ Müller 1999).

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NOTE

  1. La sussistenza è ciò che è necessario per la sopravvivenza quotidiana: cibo, vestiti, un tetto sopra la testa, ma anche cura e socialità. In altri termini, “la sussistenza è semplicemente il modo in cui gli esseri umani producono e riproducono quotidianamente la propria vita e come gestiscono questo processo dal punto di vista materiale, sociale e del contenuto”. (V. B.-Th., 2003 a:249)
  2. Una risposta completa alla frase di Margareth Thatcher e la sua politica neoliberale si trova nel libro “There Is an Alternative. Subsistence and Worldwide Resistance to Corporate Globalization” (Bennholdt/Thomsen/ Faraclas/ Werlhof 2001)
  3. Al momento della nostra indagine in quasi il 60 % delle aziende nella pianura di Warburg si allevavano suini. La tendenza è in aumento. Comunque fanno parte di questa percentuale sia le aziende con 30 maiali da ingrasso su paglia che le grandi stalle con 2000 suini. Nel 13 % delle aziende si tengono scrofe per la “produzione maialini”, alcune di esse possiedono anche una stalla per l’ingrassamento.
  4. In contrasto con il mito secondo il quale in tutta l’agricoltura europea la maggioranza delle aziende abbia dovuto chiudere e che quelle rimanenti operino su aree molto più grandi, perché a quanto pare questo sia il decorso dell’economia moderna presentiamo qui l’esempio dell’Austria. In questo paese l’agricoltura continua ad essere strutturata su scala più piccola, cioè anche le aziende agricole più grandi sono molto più piccole di quelle tedesche. Non occorre cercare la spiegazione di questo fenomeno nel paesaggio montuoso – anche se evidentemente incide – ma nel fatto che lì la produzione contadina e le sue modalità (oltre alla sua cultura) non dovevano essere distrutte. Per questo il governo social-democratico di Bruno Kreisky (dopo aver subito la relativa pressione da parte della popolazione) ha creato il programma per gli agricoltori in zone montane che con denaro pubblico li aiuta ad andare avanti con la loro attività. Con l’entrata dell’Austria nell’UE questo programma è stato abolito (dopo un periodo di transizione).
  5. A titolo di esempio nel nostro lavoro sulla pianura di Warburg  presentiamo dettagliatamente una azienda a produzione mista: “Produzione contadina invece di razionalità aziendale: Una scelta di vita.”
  6. Ma anche nei territori con divisione reale nel sud della Germania e nella zona alpina l’uomo viene favorito nell’assegnazione della titolarità. Questa forma di patriarcato è stato notevolmente incrementato tramite la legge riguardante i poderi enfiteutici o ereditari del periodo nazista che prevedeva un unico erede maschio. Ciò nonostante la tradizione della divisione reale – ogni figlio, maschio e o femmina che sia, riceve una parte uguale dell’eredità – e la relativa cultura hanno effetti fino ai giorni nostri: la gamma dei prodotti coltivati è molto varia, dalla frutta e verdura all’allevamento di animali piccoli e coltivazioni particolari. Perché la divisione reale comportava colture più laboriose che richiedevano anche maggiori competenze in materia di lavorazione e commercializzazione. Dalla divisione reale sono anche nate fattorie più piccole ed in tutta Europa la percentuale di titolari donne è molto più alta nelle aziende agricole di piccola dimensione.
  7. Al momento della nostra indagine le proporzioni tra i vari tipi di aziende erano le seguenti: il 40 % delle aziende con più di 5 ettari di terreno sono gestiti come secondo lavoro, il 28 % delle aziende sono grandi, i cosiddetti “aziende del futuro”, ed il 32 % di tutte le aziende sono piccole e medie e gestite come attività principale. Per quanto riguarda la partecipazione delle donne nei lavori un esame a campione ha evidenziato la situazione seguente: nel 32 % il lavoro della donna è parte integrante dell’attività aziendale, nel 28 % la donna lavora a 50 % e nel 39 % tutto il lavoro in stalla e sui campi viene eseguito dall’agricoltore, eventualmente con l’aiuto di un genitore anziano o, eccezionalmente, da personale pagato (p. 101)
  8. La “soglia di crescita” è costituita dalla linea statistica tra il numero di aziende in diminuzione e quelle in incremento. Essa è in costante salita. All’inizio degli anni ’80, nella vecchia RFT prima della riunificazione, era attorno ai 30 ettari, nel 1990 a 40 e nel 2003 a 75 ettari. Attualmente si dice quindi che un’azienda con meno di 75 ettari non sia in grado di sopravvivere economicamente.
  9. Benedizione delle erbe o Kroutwigge: a metà agosto, in occasione dell’assunzione di Maria Vergine nelle località della pianura di Warburg si è tornati con forza alla tradizione di raccogliere un mazzo di 24 piante officinali che viene poi benedetto in chiesa. Serviva in passato soprattutto a proteggere la salute degli animali e ancora oggi lo si trova a volte appeso nelle stalle.
  10. Le esperienze con un altro tipo di rapporto col denaro lasciano apparire non più così lontano l’avvento di una moneta complementare regionale. Le monete regionali creano circoli di scambio, cioè determinano un più elevato scambio di beni e servizi all’interno di una regione. In Germania e anche in altri paesi sono nate nel frattempo numerose iniziative di questo tipo (cfr. a tal proposito Kennedy/ Lietaer 2004).